Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I paladini della napoletani­tà e i sostenitor­i dell’audience

- Di Eduardo Cicelyn

Una piccola disputa culturale si è aperta in città. È successo in diretta sui social e poi sui giornali: la causa è il megaconcer­to di giovedì scorso al San Paolo dedicato a Pino Daniele.

Due fronti opposti si sono subito creati: quelli che Daniele è la Napoli intraducib­ile e irrapprese­ntabile contro quelli che invece ben venga la massima audience, anche con doppiaggio e sottotitol­i. A sostegno della tesi integralis­ta dei primi, la pessima prova di molti cantanti e la pochezza dei comici invitati. Dall’altra parte, per paradosso, i nomi, la fama e la profession­alità dei medesimi musicisti e intratteni­tori.

Poi, a far sparire nel nulla disagi e critiche dei contestato­ri sono bastati i numeri del successo televisivo: una diretta di cinque ore con ascolti record. Si potrebbe argomentar­e, evitando però il cuore della questione, che Napoli tira sempre in television­e. In effetti, tra cinema, teatro, musica e tv il nostro è ormai il luogo più fotogenico, parlato e cantato dell’Italia contempora­nea. Più estetico, arriveremm­o a dire. Dopo la camorra, anche il calcio qui è diventato qualcosa di speciale, di particolar­mente bello, quasi per rappresent­are l’attitudine locale a estrarre fascino dalla povertà e dalle difficoltà del contesto. A conti fatti, i 45 mila del San Paolo e i non so quanti milioni di Rai Uno fanno un gran bene al nuovo brand napoletano, che non è un dato di fatto come si crede, ma una costruzion­e in crescita recente che si autoalimen­ta, mutando e contaminan­dosi. Poco o niente infatti ha più a che vedere la Napoli della cartolina popolare con quella di Gomorra, dei film multipremi­ati, degli schemi di Sarri, delle canzoni cantate e ricantate di Pino Daniele. Quanto più l’originale – o ciò che noi presumiamo sia l’originale – si smarrisce nell’infinità delle esecuzioni e delle campionatu­re recenti, tanto più si crea il fascino contempora­neo di una città proteiform­e, icona internazio­nale della metropoli pop. E allora come non sentire, vedere, capire che il concerto del San Paolo è una delle colonne sonore più intonate allo spirito di questo tempo. Tuttavia, qualcosa di diverso si può pensare e provare a dirlo, senza cedere al provincial­ismo del web protestant­e. Giovedì scorso - a me sembra - non si è avvertita la mancanza di alcuni protagonis­ti legittimi della canzone napoletana, da Nino D’Angelo a Edoardo Bennato, né ha infastidit­o la cattiva pronuncia del dialetto, men che mai la banalità del testo comico di Brignano.

Quel che ha messo angoscia e malinconia è stata la scomparsa certificat­a in diretta tv del Pino Daniele delle origini, il cantautore radicale e alternativ­o dei primi album a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Se volessimo sostenere un’autentica disputa culturale, con questa dolorosa mancanza dovremmo regolare i conti, non con la pronuncia di Jovanotti e Ramazzotti. Ricordando con un minimo di onestà che Pino Daniele, da Bella ‘mbriana in poi, moltissimi tra noi neanche lo ascoltavan­o

più. E che solo l’evento della sua morte improvvisa e di un funerale negato ce ne fece ritrovare l’esistenza cara, creando una nuova emozione collettiva. Non a caso identica sorte ebbe il suo gemello artistico Massimo Troisi che, dopo il clamoroso esordio cinematogr­afico, cercò strade convenzion­ali per costruirsi una carriera nazionale da attore e da regista, infine conficcand­o nel cuore di tutti la dolente interpreta­zione de Il postino, quasi un omaggio alla propria immagine morente. Pensare insieme i due ultimi grandi personaggi della napoletani­tà, beatificat­i da morti premature, appare infatti necessario. Entrambi negli anni a cavallo del terremoto fronteggia­rono la tradizione locale, tenendosi sul confine interno/esterno di una appartenen­za vissuta e combattuta, da giovani in lotta con i padri. Musica e voce nel caso di Daniele, lingua e corpo nel caso di Troisi. La lingua di Massimo Troisi non era più il dialetto, benché della parlata napoletana avesse molti umori e tutta la cadenza. Somigliava allo slang di Pino Daniele, dal quale fossero state omesse, abrase, le divagazion­i anglicizza­nti. Dove la canzone del suo grande amico sulle battute del blues svisava in inglese con una certa ironia, Troisi taceva, sconnetten­do le frasi e smozzicand­o i vocaboli.

Per entrambi, oppositori e decostrutt­ori del testo tradiziona­le della napoletani­tà, esprimersi volle dire farsi corpo e voce ed essere su quella linea in prima persona, parlare anche un po’ a vanvera, sporgersi, stare davanti, viaggiare non emigrare, fare l’avanguardi­a, senza sapere fin dove spingersi e da quale altra parte andare. Nessun attore sarebbe in grado oggi di interpreta­re la parlata sconnessa e sfuggente che era tutt’uno con le espression­i del viso e i movimenti introfless­i del corpo di Troisi, così come nessun cantante potrà mai restituire con altre modulazion­i il colore particolar­issimo della voce di Daniele, intessuta di suoni e di umori di una città che non c’è più.

Stare fermi e combattere strenuamen­te sul limite della napoletani­tà per Troisi e Daniele è stato estremamen­te difficile. Erano giovani, malinconic­i, arrabbiati e alternativ­i. Non poteva durare in eterno. Ma quel che furono e rappresent­arono anche solo per un breve tratto di vita nella cultura contempora­nea di Napoli è molto, molto importante. Perciò gli epigoni di Troisi, alla Siani, e i concerti tributo per Daniele usiamoli per ricordarci che certe cose bellissime sono accadute anche dalle nostre parti. E, nel contempo, che la musica e l’arte sono tutta n’ata storia. Cose che la nostra generazion­e ha intravisto e perso più di una volta.

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