Corriere del Mezzogiorno (Campania)
I paladini della napoletanità e i sostenitori dell’audience
Una piccola disputa culturale si è aperta in città. È successo in diretta sui social e poi sui giornali: la causa è il megaconcerto di giovedì scorso al San Paolo dedicato a Pino Daniele.
Due fronti opposti si sono subito creati: quelli che Daniele è la Napoli intraducibile e irrappresentabile contro quelli che invece ben venga la massima audience, anche con doppiaggio e sottotitoli. A sostegno della tesi integralista dei primi, la pessima prova di molti cantanti e la pochezza dei comici invitati. Dall’altra parte, per paradosso, i nomi, la fama e la professionalità dei medesimi musicisti e intrattenitori.
Poi, a far sparire nel nulla disagi e critiche dei contestatori sono bastati i numeri del successo televisivo: una diretta di cinque ore con ascolti record. Si potrebbe argomentare, evitando però il cuore della questione, che Napoli tira sempre in televisione. In effetti, tra cinema, teatro, musica e tv il nostro è ormai il luogo più fotogenico, parlato e cantato dell’Italia contemporanea. Più estetico, arriveremmo a dire. Dopo la camorra, anche il calcio qui è diventato qualcosa di speciale, di particolarmente bello, quasi per rappresentare l’attitudine locale a estrarre fascino dalla povertà e dalle difficoltà del contesto. A conti fatti, i 45 mila del San Paolo e i non so quanti milioni di Rai Uno fanno un gran bene al nuovo brand napoletano, che non è un dato di fatto come si crede, ma una costruzione in crescita recente che si autoalimenta, mutando e contaminandosi. Poco o niente infatti ha più a che vedere la Napoli della cartolina popolare con quella di Gomorra, dei film multipremiati, degli schemi di Sarri, delle canzoni cantate e ricantate di Pino Daniele. Quanto più l’originale – o ciò che noi presumiamo sia l’originale – si smarrisce nell’infinità delle esecuzioni e delle campionature recenti, tanto più si crea il fascino contemporaneo di una città proteiforme, icona internazionale della metropoli pop. E allora come non sentire, vedere, capire che il concerto del San Paolo è una delle colonne sonore più intonate allo spirito di questo tempo. Tuttavia, qualcosa di diverso si può pensare e provare a dirlo, senza cedere al provincialismo del web protestante. Giovedì scorso - a me sembra - non si è avvertita la mancanza di alcuni protagonisti legittimi della canzone napoletana, da Nino D’Angelo a Edoardo Bennato, né ha infastidito la cattiva pronuncia del dialetto, men che mai la banalità del testo comico di Brignano.
Quel che ha messo angoscia e malinconia è stata la scomparsa certificata in diretta tv del Pino Daniele delle origini, il cantautore radicale e alternativo dei primi album a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Se volessimo sostenere un’autentica disputa culturale, con questa dolorosa mancanza dovremmo regolare i conti, non con la pronuncia di Jovanotti e Ramazzotti. Ricordando con un minimo di onestà che Pino Daniele, da Bella ‘mbriana in poi, moltissimi tra noi neanche lo ascoltavano
più. E che solo l’evento della sua morte improvvisa e di un funerale negato ce ne fece ritrovare l’esistenza cara, creando una nuova emozione collettiva. Non a caso identica sorte ebbe il suo gemello artistico Massimo Troisi che, dopo il clamoroso esordio cinematografico, cercò strade convenzionali per costruirsi una carriera nazionale da attore e da regista, infine conficcando nel cuore di tutti la dolente interpretazione de Il postino, quasi un omaggio alla propria immagine morente. Pensare insieme i due ultimi grandi personaggi della napoletanità, beatificati da morti premature, appare infatti necessario. Entrambi negli anni a cavallo del terremoto fronteggiarono la tradizione locale, tenendosi sul confine interno/esterno di una appartenenza vissuta e combattuta, da giovani in lotta con i padri. Musica e voce nel caso di Daniele, lingua e corpo nel caso di Troisi. La lingua di Massimo Troisi non era più il dialetto, benché della parlata napoletana avesse molti umori e tutta la cadenza. Somigliava allo slang di Pino Daniele, dal quale fossero state omesse, abrase, le divagazioni anglicizzanti. Dove la canzone del suo grande amico sulle battute del blues svisava in inglese con una certa ironia, Troisi taceva, sconnettendo le frasi e smozzicando i vocaboli.
Per entrambi, oppositori e decostruttori del testo tradizionale della napoletanità, esprimersi volle dire farsi corpo e voce ed essere su quella linea in prima persona, parlare anche un po’ a vanvera, sporgersi, stare davanti, viaggiare non emigrare, fare l’avanguardia, senza sapere fin dove spingersi e da quale altra parte andare. Nessun attore sarebbe in grado oggi di interpretare la parlata sconnessa e sfuggente che era tutt’uno con le espressioni del viso e i movimenti introflessi del corpo di Troisi, così come nessun cantante potrà mai restituire con altre modulazioni il colore particolarissimo della voce di Daniele, intessuta di suoni e di umori di una città che non c’è più.
Stare fermi e combattere strenuamente sul limite della napoletanità per Troisi e Daniele è stato estremamente difficile. Erano giovani, malinconici, arrabbiati e alternativi. Non poteva durare in eterno. Ma quel che furono e rappresentarono anche solo per un breve tratto di vita nella cultura contemporanea di Napoli è molto, molto importante. Perciò gli epigoni di Troisi, alla Siani, e i concerti tributo per Daniele usiamoli per ricordarci che certe cose bellissime sono accadute anche dalle nostre parti. E, nel contempo, che la musica e l’arte sono tutta n’ata storia. Cose che la nostra generazione ha intravisto e perso più di una volta.