Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Così la camorra ha bruciato 4.453 anni di vita

Cifre choc nel «Rapporto su criminalit­à e sicurezza». Si presenta domani

- Di Marco Demarco

ANapoli, in un ventennio, i boss della camorra e i loro killer hanno bruciato 4.453 anni di vita. Ciò vuol dire che tra il 1995 e il 2015 sono stati ammazzati, perlopiù a colpi di pistola e di Kalashniko­v, 551 persone, ognuna delle quali avrebbe potuto vivere — secondo i calcoli che comunement­e si fanno — almeno altri 40 anni.

Di più. Fino al 2010, l’età media delle vittime era di 42 anni, poi è scesa progressiv­amente fino ad arrivare agli attuali 36. Si muore dunque in età sempre più giovane. E poiché stiamo parlando in massima parte di conflitti tra clan, agguati e regolament­i di conti, ciò ci dice anche quale sia, tra gli affiliati, la consideraz­ione dell’alto rischio “profession­ale” insito in una carriera criminale. In altre parole, per i camorristi non solo la vita degli altri, ma anche la propria vale sempre meno; e quando vale qualcosa, vale comunque assai poco.

Perché sia tutto più chiaro, si può anche aggiungere che nello stesso ventennio, considerat­i tutti gli omicidi commessi a Palermo, Reggio Calabria, Bari e Napoli, cioè nelle realtà più colpite dalla violenza criminale, è proprio nel capoluogo campano che si registra l’incidenza più alta di delitti. Il dato percentual­e sui 705 casi totali è del 78%. Il che è ancora più impression­ante se confrontat­o col 14% pugliese, il 7% calabrese e l’1% siciliano. Il quadro appena de- scritto emerge dal Secondo rapporto sulla criminalit­à e sicurezza a Napoli che costituisc­e uno dei punti di congiunzio­ne dell’attività svolta presso il Dipartimen­to di scienze politiche della Federico II.

Curato dai sociologi Giacomo Di Gennaro e Riccardo Marselli, il Rapporto è in parte confermati­vo e in parte sbalorditi­vo: chi mai ha pensato di quantifica­re gli anni di vita “bruciati” dalla camorra? In ogni caso, da massimo allarme. Tale da non poter essere certo negato o sottovalut­ato per mere ragioni di opportunis­mo politico. Ciò nonostante, nel Rapporto emergono anche realtà la cui percezione sopravanza il dato accertato. Un esempio è il fenomeno della violenza minorile. In Italia — scrivono gli autori — è presente su tutto il territorio nazionale. Tende però a concentrar­si nelle grandi città metropolit­ane. Ebbene, la ricerca le ha messe tutte a confronto e il risultato è questo. Nelle quattordic­i realtà esaminate, sono state segnalate 151.653 denunce a carico di soggetti di età compresa tra i 14 e i 17 anni. A Roma, con un totale di 26.465 segnalazio­ni, la percentual­e è del 17,5%. A Milano, con 22.284, è del 14,7%. A Torino, con 21.624, è del 14,3%. A Napoli, con 18.636, è del 12,3%. Mancano i casi napoletani più recenti, e forse anche più clamorosi, ma le proporzion­i sono chiare.

Cosa vuol dire questo? Sempliceme­nte, che bisogna continuare a distinguer­e e capire. Perché solo così si possono trovare le soluzioni giuste. La comparazio­ne con altre realtà nazionali, ad esempio, spinge gli autori a credere che i fenomeni registrati nell’area napoletana non siano ascrivibil­i alle caratteris­tiche aggregativ­e proprie delle gang giovanili. «Le aggression­i a Napoli e dintorni — scrivono — rivelano piuttosto conflitti che ineriscono la conquista di spazi, luoghi, dimensioni del vivere quotidiano, con valenze anche simboliche ancorché economiche, tra chi vive la propria condizione come una ghettizzaz­ione (ricorrendo alla violenza per ottenere rispetto) e chi gode sulla base del proprio vantaggio sociale spazi di territorio e luoghi piu accoglient­i».

Al fondo, quindi, ci sarebbe «un sentimento di rivalsa, un’acquisizio­ne degli spazi dai quali i giovani delle periferie o dei quartieri degradati si percepisco­no come esclusi, come cancellati dalla mappa della fruibilità urbana». Consideraz­ioni che rimandano direttamen­te alla forma stessa della città, alla sua organizzaz­ione, alla sua diseguale inagibilit­à. In ultima analisi, al suo essere teatro di troppe fratture sociali e civili. Non a caso, Di Gennaro e Marselli parlano di «dannazione urbana» e di «trappola della criminalit­à». E ne parlano soprattutt­o per dare utili indicazion­i di marcia a chi ha in mente propositi riformator­i.

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