Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Turisti attoniti sul «red carpet» delle blatte
Napoli è ridotta a un letamaio. Punto. E tacciano i neoborbonici e gli irriducibili difensori della napoletanità, specie ora che fa caldo: perché nella bella stagione la putredine partenopea acquista vitalità e arroganza senza pari. Ieri ho attraversato a piedi via Salvator Rosa, poco prima delle 8 di sera, e lo scenario era ripugnante.
Camminavo su un autentico red carpet di blatte rosse. Un immondo tappeto che arrivava fino all’incrocio con via Pessina e piazza Museo.
Il Museo Archeologico, per essere precisi, cioè il principale sito d’arte della città, visitato da un milione di turisti all’anno: turisti, ahimè, più interessati a fotografare la carica degli scarrafoni, che l’Ercole farnese. Turisti che forse definiranno vomitevole la gestione di questa città. Non avevo mai visto nulla di simile in vita mia. E, come sempre accade a Napoli, autentico teatro stabile dell’assurdo, la cosa ha assunto, oltre quelli della tragedia, i contorni della farsa. Fra insetti ed esercenti, come in un surreale incrocio fra una comica del muto e un fantahorror, s’è scatenata una vera e propria battaglia. Molti commercianti hanno tentato di respingere l’assalto degli scarrafoni con scope, pale, addirittura schiacciandoli sotto le scarpe o riconvogliandoli nei tombini col getto d’acqua di una pompa. Una signora dal balcone di un primo piano ha spazzato giù un mucchietto di scarafaggi volati fino a lei, e subito i combattenti al livello della strada si sono ribellati: «Signo’, ma che facit’, ’nce vuttat’ ’e scarrafun ’n capa?».
Una guerra totale, con Ddt ovunque e un odore di creolina che stordiva (attenti ai cani). Gli insetti morti o moribondi erano centinaia, ma altrettanti ne scorgevo mentre ancora tentavano di arrampicarsi lungo i muri, di infilarsi nelle saracinesche, sopra e sotto le porte, di trovare rifugio negli innumerevoli orifizi di un manto stradale disastrato, dove i cestini pubblici per la carta vengono utilizzati come cassonetti, diventando mostruosi totem della munnezza. Sul lato sinistro della strada, scendendo, l’Asìa non passa perché le auto in divieto di sosta impediscono la pulizia (e mettono a rischio la vita dei pedoni, perché il marciapiede non c’è). Sull’altro passa, ma non produce effetto alcuno. Svoltato l’angolo, la colonna dell’Immacolata segna quasi un confine. Venendo dalla grande arteria che unisce il centro storico col Vomero, ancor più trista nel susseguirsi dei suoi magnifici palazzi storici, via Pessina sembra pulita. Ma non lo è. Si avanza nel piscio, nel fetore, nel degrado. E la disgrazia è che ci siamo abituati, che ancora si sente l’idiota di turno rizelarsi delle critiche di chi ci definisce una cloaca a cielo aperto e rivendicare il primato di città più bella del mondo.
Ma cosa c’entriamo noi, con l’immeritata bellezza del Golfo, o con la meraviglia che la visione della città suscita in chi la ammira da lontano? Vista da vicino Napoli fa schifo. Inutile negarlo. E per il novanta per cento questo schifo ha nomi e cognomi: i nostri.