Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Mare, migranti e la casbah della Ferrovia
Questo mare che Napoli non ha mai amato abbastanza ci riporta al senso del Mediterraneo, e a quella nave con un carico di migranti che ne sta sospesa in mezzo. Mare di mezzo che unisce coste distanti e contrapposte, e oggi divide; mare motore della storia che ha spinto i popoli a spiegare le vele agli scambi come alle guerre di conquista.
Quanto deve l’Europa a questo mare nostro? E quanto Napoli alla sua bellezza? I viaggi disperati dei migranti lo graffiano a sangue con continue scie di morte: sembra non esserci alcun freno possibile all’esodo biblico di questa umanità che scappa dall’orrore o cerca altro che la loro terra non può dare. Volti aperti, dagli occhi grandi e lucidi, spesso sorridenti nonostante la mancanza di tutto e la evidente delusione di non aver trovato qui la terra promessa.
Sono facce incredibilmente uguali alle nostre di gente del Sud, tranne forse che per il sorriso e per il colore della pelle. Noi non abbiamo visto i volti dei milioni di conterranei che, da quello stesso porto che il primo cittadino ha generosamente, ma solo simbolicamente, offerto agli ostaggi dell’Aquarius, sono partiti a ondate verso i nuovi mondi delle Americhe e dell’Australia; né ricordiamo i volti di quelli che dalla stazione di piazza Garibaldi salivano in terza classe sui treni per il Nord, e che a Torino-Italia non trovavano alloggio a causa dello stesso pregiudizio razziale che spinge oggi tanti nostri concittadini a plaudire al gesto maschio della chiusura dei porti ai migranti.
A stento abbiamo forse guardato in faccia qualcuno dei compagni dei nostri figli che, dopo la laurea, con altri 50.000 sono andati via dalla nostra regione a cercar fortuna fuori, in Europa, da Milano in su. Perché l’Europa, alla quale ci appelliamo per non essere lasciati soli nella gestione dei profughi, non è Bruxelles, ma è già Milano, nell’altra Italia.
Eppure è la terra e non il mare il luogo in cui s’intrecciano i nodi da sciogliere e va affrontata la battaglia per la gestione dei migranti: se a mare si perde la vita, è a terra che la vita viene venduta. Vi sono almeno tre luoghi-simbolo che non richiamano le responsabilità dell’Europa, ma proprio le nostre, e sono radicati al Sud: le campagne dei caporali, le case disoneste dell’accoglienza, piazza Garibaldi e dintorni.
C’è un intreccio diabolico e criminale, ancora non adeguatamente smascherato, che connette le organizzazioni degli scafisti libici o tunisini con le organizzazioni del caporalato nelle nostre campagne. Migranti sfruttati a due euro l’ora e contributi Inps incassati dai nostri italianissimi agricoltori. Lo stesso intreccio collega il traffico dei richiedenti asilo ai gestori disonesti della filiera dell’accoglienza. Ingenti contributi pubblici di fondi europei distribuiti a pioggia a chi offre ai profughi cibo scaduto e stanze maleodoranti. E nella casbah della Ferrovia? L’assenza di regole e di ogni controllo, sia in termini di presidio dell’ordine pubblico che di politiche sociali, ha permesso la cessione del territorio a chi ne ha il controllo. L’intera area degradata della Ferrovia, da corso Novara fino a Porta Nolana, al pari di quella di Gianturco lasciata alle organizzazioni cinesi, è da anni sotto gli occhi di tutti un immenso mercato nero popolato da neri di ogni provenienza. È il centro di gravità di una rete estesa che vede un migrante a turno, con postazioni fisse chissà da chi assegnate, davanti a ogni supermercato, esercizio, farmacia, angolo di strada, fin dentro il cimitero di questa città. Chi ci guadagna? Che c’entra l’Europa? Per chi «è finita la pacchia»? Perché in altre città d’Europa, pur con percentuali di migranti per abitante più alte di Napoli, questo non accade o non si vede? Domande senza risposte.
Gaetano Filangieri, Mario Pagano, Gaetano Salvemini, Pasquale Saraceno la risposta ce l’avrebbero data: il vero scontro non è a mare, perché il mare serve per unire, ma a terra, proprio qui nel Meridione, ed è lo scontro tra la cultura mafiosa, cioè la cultura dell’interesse privato nell’assenza dello Stato, e la vera cultura, che è quella delle istituzioni.