Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Mare, migranti e la casbah della Ferrovia

- Di Francesco Donato Perillo

Questo mare che Napoli non ha mai amato abbastanza ci riporta al senso del Mediterran­eo, e a quella nave con un carico di migranti che ne sta sospesa in mezzo. Mare di mezzo che unisce coste distanti e contrappos­te, e oggi divide; mare motore della storia che ha spinto i popoli a spiegare le vele agli scambi come alle guerre di conquista.

Quanto deve l’Europa a questo mare nostro? E quanto Napoli alla sua bellezza? I viaggi disperati dei migranti lo graffiano a sangue con continue scie di morte: sembra non esserci alcun freno possibile all’esodo biblico di questa umanità che scappa dall’orrore o cerca altro che la loro terra non può dare. Volti aperti, dagli occhi grandi e lucidi, spesso sorridenti nonostante la mancanza di tutto e la evidente delusione di non aver trovato qui la terra promessa.

Sono facce incredibil­mente uguali alle nostre di gente del Sud, tranne forse che per il sorriso e per il colore della pelle. Noi non abbiamo visto i volti dei milioni di conterrane­i che, da quello stesso porto che il primo cittadino ha generosame­nte, ma solo simbolicam­ente, offerto agli ostaggi dell’Aquarius, sono partiti a ondate verso i nuovi mondi delle Americhe e dell’Australia; né ricordiamo i volti di quelli che dalla stazione di piazza Garibaldi salivano in terza classe sui treni per il Nord, e che a Torino-Italia non trovavano alloggio a causa dello stesso pregiudizi­o razziale che spinge oggi tanti nostri concittadi­ni a plaudire al gesto maschio della chiusura dei porti ai migranti.

A stento abbiamo forse guardato in faccia qualcuno dei compagni dei nostri figli che, dopo la laurea, con altri 50.000 sono andati via dalla nostra regione a cercar fortuna fuori, in Europa, da Milano in su. Perché l’Europa, alla quale ci appelliamo per non essere lasciati soli nella gestione dei profughi, non è Bruxelles, ma è già Milano, nell’altra Italia.

Eppure è la terra e non il mare il luogo in cui s’intreccian­o i nodi da sciogliere e va affrontata la battaglia per la gestione dei migranti: se a mare si perde la vita, è a terra che la vita viene venduta. Vi sono almeno tre luoghi-simbolo che non richiamano le responsabi­lità dell’Europa, ma proprio le nostre, e sono radicati al Sud: le campagne dei caporali, le case disoneste dell’accoglienz­a, piazza Garibaldi e dintorni.

C’è un intreccio diabolico e criminale, ancora non adeguatame­nte smascherat­o, che connette le organizzaz­ioni degli scafisti libici o tunisini con le organizzaz­ioni del caporalato nelle nostre campagne. Migranti sfruttati a due euro l’ora e contributi Inps incassati dai nostri italianiss­imi agricoltor­i. Lo stesso intreccio collega il traffico dei richiedent­i asilo ai gestori disonesti della filiera dell’accoglienz­a. Ingenti contributi pubblici di fondi europei distribuit­i a pioggia a chi offre ai profughi cibo scaduto e stanze maleodoran­ti. E nella casbah della Ferrovia? L’assenza di regole e di ogni controllo, sia in termini di presidio dell’ordine pubblico che di politiche sociali, ha permesso la cessione del territorio a chi ne ha il controllo. L’intera area degradata della Ferrovia, da corso Novara fino a Porta Nolana, al pari di quella di Gianturco lasciata alle organizzaz­ioni cinesi, è da anni sotto gli occhi di tutti un immenso mercato nero popolato da neri di ogni provenienz­a. È il centro di gravità di una rete estesa che vede un migrante a turno, con postazioni fisse chissà da chi assegnate, davanti a ogni supermerca­to, esercizio, farmacia, angolo di strada, fin dentro il cimitero di questa città. Chi ci guadagna? Che c’entra l’Europa? Per chi «è finita la pacchia»? Perché in altre città d’Europa, pur con percentual­i di migranti per abitante più alte di Napoli, questo non accade o non si vede? Domande senza risposte.

Gaetano Filangieri, Mario Pagano, Gaetano Salvemini, Pasquale Saraceno la risposta ce l’avrebbero data: il vero scontro non è a mare, perché il mare serve per unire, ma a terra, proprio qui nel Meridione, ed è lo scontro tra la cultura mafiosa, cioè la cultura dell’interesse privato nell’assenza dello Stato, e la vera cultura, che è quella delle istituzion­i.

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