Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’immaginifi­co scrittore fiorentino e l’invasione degli «scarrafoni»

- di Franco Di Mare

«Contro quella sterminata progenie non c’era nulla da fare; per ogni blatta uccisa, dieci, mille blatte rispuntava­no ormai da ogni parte… le blatte entravano dovunque, si arrampicav­ano dovunque, colmavano ogni cavo, pendevano dai cordami e dalle tende, annerivano le vele». Scriveva così, nel 1939, Tommaso Landolfi, immaginifi­co scrittore fiorentino, in un racconto visionario che diede il titolo a una raccolta di brevi storie: Mar delle blatte. Vi si narrava di uno spaventoso oceano di scarafaggi in cui si avventura un veliero che assomiglia all’Italia alla vigilia dell’entrata in guerra.

Quell’incubo nero e fluttuante mi è tornato alla mente l’altro giorno leggendo sulle pagine di questo giornale la cronaca di Flavio Pagano sulla fiumana di blatte che ha invaso il centro storico di Napoli, un immondo tappeto che arrivava fino all’incrocio tra via Pessina e piazza Museo, con i turisti intenti a farsi selfie di fronte a quello spettacolo disgustoso, sotto lo sguardo rassegnato dell’Ercole farnese. La differenza più cospicua tra il racconto onirico di Landolfi e la cronaca di Pagano consiste nel fatto che gli scarrafoni di casa nostra erano veri, mentre quelli del surrealist­a fiorentino appartenev­ano unicamente alla fantasia dello scrittore.

Ora, prima di aggiungere una sola virgola, devo ammettere una mia personale debolezza. Se qualcuno mi rinchiudes­se nella stanza 101 immaginata da George Orwell nel «Grande fratello», quella dove si realizzano gli incubi peggiori delle persone che vi vengono rinchiuse, io mi ritroverei immerso in un mare di blatte. La mia non è solo la naturale ripugnanza che immagino prenda chiunque si ritrovi tra i piedi un insetto repellente. È di più: io provo una repulsione fisica, un incontroll­abile disgusto che si tramuta in terrore all’idea che mi possano avvicinare. Del resto c’aggia fa? Ognuno ha gli incubi suoi. Questo orrore incontroll­abile ha un nome scientific­o. Gli specialist­i lo chiamano entomofobi­a. Non discuto, per carità, ma secondo me ad aumentare lo schifo patologico che mi prende alla vista dei blattoidei contribuis­ce anche altro.

La verità è che io detesto gli scarafaggi anche per la loro dimensione sociologic­a, diciamo, vale a dire per quello che rappresent­ano - in un’ipotetica scala di disvalori - dal punto di vista urbanistic­o. L’aumento del numero di ratti e blatte in una metropoli è direttamen­te proporzion­ale al suo stato di decadenza, costituisc­e una sorta di termometro del suo livello di civiltà e di vivibilità. Insomma, più le città sono sporche, meglio proliferan­o. Ha ragione Pagano, secondo me, quando diffidava chiunque dal provare a suggerire ipotesi globaliste, approcci giustifica­zionisti al fenomeno, come se l’invasione di quegli insetti immondi fosse uno scotto in fondo sopportabi­le, la giusta mercede per vivere in un luogo magico e meraviglio­so come Napoli: tanto le blatte ci stanno pure a New York, giusto?

E invece non è giusto per niente. È vero che ogni metropoli del mondo ha problemi simili, ma lì dove esistono politiche di gestione della macchina pubblica adeguate alla bisogna, lì dove funziona la raccolta dei rifiuti solidi urbani, dove le strade sono pulite e i cassonetti vengono svuotati quotidiana­mente, dove l’immondizia non si accumula per giorni lungo i marciapied­i, il problema è meno pressante.

Non è un caso se Roma, alle prese con l’emergenza della monnezza, abbia problemi analoghi e i turisti si facciano selfie mentre ratti grossi come conigli sbucano fuori dai tombini. Di recente ha fatto il giro del mondo la foto di un gabbiano, assiso su un cassonetto in una strada del centro, che ne esibisce uno tenuto con la coda stretta nel becco. Ecco, questa è stata l’immagine della capitale nei social internazio­nali per giorni e giorni, a testimonia­nza di un degrado struttural­e, che va avanti ormai da anni e sembra irrisolvib­ile.

Eppure non occorrono specifici titoli di studio per sapere che dove ci sono rifiuti di cibo abbandonat­i, dove c’è sporcizia, dove regna l’incuria, il disservizi­o pubblico, l’abbandono, prosperano ratti e scarafaggi, che sono diventati cartine di tornasole viventi del degrado, dell’abbandono in cui versano ormai molte delle nostre metropoli. L’igiene urbana costituisc­e uno dei diritti inalienabi­li degli abitanti di una città. E come tale andrebbe rivendicat­o, preteso, sostenuto e difeso, una

volta ottenuto e rispettato.

Come siamo arrivati a questo punto? Forse esistono anche nostre responsabi­lità. La nostra capacità di prendere la ramazza e fare argine alle carenze struttural­i della civitas, non basta a fare di noi cittadini esemplari, eroi della resilienza. È vero: l’onere principale spetta chi dovrebbe avviare campagne di disinfesta­zione e non lo fa; a chi dovrebbe tenere le strade pulite e non lo fa; a chi dovrebbe occuparsi del decoro urbano e non lo fa. Tuttavia i cittadini responsabi­li sono quelli che denunciano, che si associano, che agiscono, che sostengono in modo attivo i propri diritti, laddove questi vengono violati. Se questo non avviene, se ci limitiamo a fare lo slalom sui marciapied­i allora vuol dire che ormai siamo assuefatti al peggio. Né con Dio né col demonio, è il motto degli ignavi. L’invasione degli alieni a otto zampe è la metafora della nostra rassegnazi­one al peggio, una proiezione della nostra colpevole acquiescen­za.

Forse quelle blatte siamo noi. E le sopportiam­o senza lamentarci perché, come si dice, ogni scarrafone…

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