Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quella foto di classe che parla già del futuro
La macchina del tempo esiste: sarebbero le rimpatriate fra ex compagni di scuola. Purtroppo questo malvagio dispositivo funziona all’opposto di come vorremmo. Invece di farci tornare ad essere ciò che siamo stati, ci spiattella cosa siamo diventati. Fornendocene, oltretutto, la misura al volte malinconica, a volte tragicomica. Da qualche giorno sfoglio l’annuario scolastico di mia figlia e mi sorprendo a compiere l’operazione inversa: non dal presente al passato, bensì dall’oggi al futuro. Da questa raccolta delle foto di fine anno – otto mesi portati a consuntivo – mi viene istintivo estrapolare l’evoluzione, da qui a dieci anni, di ogni singola individualità. Così come rivelata, o tradita, da ciascuna maschera facciale.
Mi scopro insomma, pagina dopo pagina, a compiere una specie di insana divinazione su ciò che ognuno di questi o queste liceali non è ancora e, probabilmente, diventerà. Forse mi azzardo a farlo perché, il giorno in cui il fotografo incaricato si è messo al lavoro, mia figlia risultava assente giustificata. Cosicché non dovrò pormi, davanti al suo viso, con il cuore angoscioso di un chirurgo che operi un proprio caro. Il che, devo ammettere, mi fa scorrere l’annuario del Liceo XY con uno spirito talmente distaccato da procurarmi un senso di irresponsabile leggerezza e vuoto sotto i piedi. Come se dovessi emettere i miei responsi su questi ragazzi da uno zenit sopra la curvatura del Tempo. Questo quando, invece, giocare con le previsioni – peggio ancora con le predizioni – è un giocare con il fuoco. Quindi con una materia incantatoria e ingannatrice per definizione. Cosa mi autorizza a pronosticare, infatti, che questa ripetente di seconda a pagina nove – intenta a giocare con l’obiettivo di tre quarti, con uno sguardo ammiccante da donna fatta – diventerà ciò che penso? Ovvero una trentenne ostracizzata dalle congeneri gelose dei propri uomini.
Meglio astenersi dal pronosticare, allora. Meglio prendere atto che il concetto grafico di questo annuario è, una volta tanto, scanzonato. Per ogni classe abbiamo, su una facciata, il canonico scatto di fine anno con quei ranghi, più o meno completi, che la scuola consegna, pari pari, al Tempo. Sulla facciata opposta, però, la classe si è potuta sbizzarrire sul tema con cui ha scelto di rappresentare se stessa. Che so: le nuove tecnologie, guerra e pace, il rapporto con i professori o fra i sessi. In aggiunta, sul basso, un altro paio di scatti dove chi voleva poteva raggrupparsi con qualche compagno o compagna per affinità, amicizia, amore.
Cos’è che salta subito agli occhi, quantomeno ai miei? Una suddivisione basilare: fra coloro che sono entrati e coloro che non hanno ancora fatto ingresso in quello che Michel Houellebecq chiama “il dominio della lotta”. In altri termini la feroce competizione, più acuta e prematura nelle femmine, per rendersi desiderabili e accaparrare i partner più attraenti. Le ragazzine che rimangono ancora al di qua del dominio a volte portano gli occhiali (le lenti a contatto sopraggiungeranno poi); sono fiere, in modo toccante, delle loro capigliature lucenti ed ondulate che racchiudono tutta la loro vanità bambina. In genere mettono in mostra le loro dentature regolari, costate fior di soldi in ortodonzia alle famiglie. Si tratta di sorrisi che rispondono, più che altro, ad una pura effervescenza biologica e presenzialista (ci siamo anche noi, siamo qua, eccoci). Spesso le proprietarie di quei sorrisi sociali si appoggiano, fisicamente, al braccio di un’amica del cuore. O le cingono le spalle con un abbraccio solidale. O si tengono strette a lei, come per scongiurare un abbandono che le getterebbe nel più nero sconforto. In ogni caso è una comunicazione corporea priva dei ritegni che avviluppano le amicizie virili. Se, per dire, da liceale un amico mi avesse preso per mano gli avrei chiesto, allarmato: «Ti gira la testa? Chiamo l’ambulanza?». Il Maschile stabilisce e difende i confini; il Femminile tende agli stati di fusione.
Altro discorso con le studentesse dell’annuario che nel “dominio della lotta” sono già scese, pronte a massimizzare contro chiunque altra il proprio valore erotico-estetico. Alcune si sono sovraesposte, quanto ad abbigliamento, scegliendo per l’occasione addirittura un vestito da cerimonia. Altre sono ricorse a tutta la loro sapienza cosmetica (attenzione però: nella vita come in letteratura, il trucco migliore è quello di cui non si so-
spetta nemmeno la presenza). Le più agguerrite giocano il tutto per tutto attraverso il potere fascinatorio dello sguardo, a paragone del quale il loro push-up configura, tutt’al più, una fattispecie secondaria di millantato credito. Ce ne sono un paio in ogni classe; spesso i loro tratti sono quelli più definiti, più pronti a catturare le particelle di luce. Hanno una consapevolezza fin troppo lucida della loro superiorità, che nasce facendo distogliere da qualcun’altra lo sguardo altrui per calamitarlo su di sé. Mi fanno tenerezza perché dipendono totalmente, in modo disarmante e disarmato, dall’ammirazione dei maschi e dall’invidia delle femmine. Il dominio della lotta non significa, dunque, solo ridurre gli altri alla propria mercé, ma anche essere alla mercé del loro apprezzamento. Chissà, mi chiedo, se queste ragazze hanno nostalgia dell’Eden che ha chiuso le sue porte con la fine delle Elementari. Quando erano tutti implumi e immaturi, dunque sostanzialmente alla pari. Quando nessuna aveva coscienza della propria bellezza; quando il gioco non si era fatto guerra e la partita della seduzione non era nemmeno giunta alla sua fase preparatoria. Partita, lotta, guerra che, in comune, hanno due sole figure: vincente e soccombente. Con un problema noto solo a chi non è più giovane. Vale a dire che la vincitrice di oggi incorpora in sé la sconfitta di domani. Mi è capitato spesso di rivedere, nel tempo, ex compagne di liceo che nelle foto di classe erano delle promettenti crisalidi, destinate a spiccare il volo come splendide vanesse. Dopo una certa età, nel dominio della lotta, le donne belle hanno una scontentezza loro propria, una declinazione tutta loro dell’infelicità nel perdere terreno. Non solo per la praticante giovane e fertile così assidua nello studio del marito. Ronza anche l’eterno dubbio espresso dagli angoli all’ingiù della bocca. «Non potevo avere di più? Non meritavo di meglio, IO?».
Il dominio della lotta, come ogni competizione, ammette solo vincitori in senso relativo e perdenti, tutti, in modo assoluto.