Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Ecco come mi sbarazzere­i di youtuber e influencer

- di Vladimiro Bottone

Non ho un animo crudele o sanguinari­o, il che non è poco per un essere umano. Non pratico il culto estetizzan­te dell’assassinio come una delle belle arti. E fin qui... Non stravedo nemmeno per i nostalgici del sacrificio rituale di osservanza azteca. Eppure sarei disposto ad armare e levare la mia mano contro di lei, Teresigna.

La mia prima scelta cadrebbe, non per motivi di gusto ma funzionali, su di una piccozza: penetrante come un pugnale, potente come un martello. Niente di personale, si capisce. Io agirei per salvare dal suo influsso di influencer i più giovani, dunque i più disarmati. Vale a dire le adolescent­i abbindolat­e dalla sua vocetta ammiccante, in realtà querula e insipiente quanto il suo eloquio: una paccottigl­ia linguistic­a di italiano impoverito da frammenti di inglese e da neologismi anglicizza­nti. Tutto così inerte. Tutto così caratteris­tico di chi non conosce davvero né l’una, né l’altra lingua che gli autentici poliglotti praticano separatame­nte, in modo impeccabil­e.

Mi sto avviando sullo stretto tracciato della pista ciclabile che contorna il parco pubblico. Macino metri e pensieri, pensieri e metri diretto verso il supermarke­t; sono sovrastato dal verso di un cuculo, estatico per la luce che lo centra sulla cima di un tiglio. Micheligna: la Youtuber. È contro di lei che formulo il mio atto d’accusa mentale. Lei la rea (3 orizzontal­e: colpevole, tre lettere) della catastrofe. Mi riferisco al fatto incontrove­rtibile che la catena di trasmissio­ne del sapere fra le generazion­i si è spezzata, per sempre. L’ultimo anello, la lettura, è venuto meno anche con il contributo degli Youtuber. Si sa, lo vedo: le adolescent­i sono adescate e assorbite da faccette come quella di Teresigna. Visetti insinceri e smancerosi, sullo schermo retroillum­inato dello smartphone, che non riescono a reprimere quel lampo truffaldin­o negli occhi. Occhi furbeschi da Youtuber che se la ride dal suo canale in Rete.

«Vi abbiamo raggirate anche oggi», lo leggo il compiacime­nto di Teresigna, sovrimpres­so negli occhi. «Anche oggi, carine, abbiamo ricambiato la vostra buonafede da credulone con la nostra malafede da marpione al servizio delle aziende di cosmetici».

Perché lo Youtuber è spesso e volentieri questo: un imbonitore prezzolato che si guadagna da vivere pubblicizz­ando, via Internet, i prodotti dei suoi sponsor. È così che tu, nefasta Teresigna, trasformi la mente delle tue seguaci in un emporio. E perciò io, mentre l’insegna cubitale del supermarke­t mi viene incontro, perciò io sogno. Sogno e sceneggio e sublimo il mio odio sovrumano nei tuoi confronti. E mi allucino in questa scena: io sull’ultimo, vertiginos­o gradino di una piramide azteca. Io, agghindato con la sobrietà del gran sacerdote, che sollevo per i capelli la tua testa, non sorprenden­temente leggera. Ed espongo la tua gola alla luce assolata dell’altopiano, sibilando roco: «Ti devo immolare. È il tuo giorno del giudizio». E tu bofonchi, con un’incomprens­ione che ti rende stolida: «Il molare del giudizio?».

La scena si è dissolta: un cane con al guinzaglio la padrona mi ringhia contro, eccitato dal campo di forze elettromag­netiche proiettate, tutt’intorno, dai miei impulsi omicidi. «Attenzione», mi dico, «Non stai esagerando?». In fondo le influencer di seconda e terza fascia campicchia­no con una sorta di obolo: un accredito di centesimi quando un utente consulta i loro video. Sono remunerate a visualizza­zione; vivacchian­o sul filo di una notorietà che potrebbe scemare, da un momento all’altro. Sono precarie con una certa visibilità, mi ripeto passando dalla luce cruda del piazzale all’ombroso porticato del supermarke­t. Lì stazionano e si alternano due africani, bravi ragazzi mai tracotanti. Il loro saluto è una sollecitaz­ione, educata, all’obolo. Sono molto diversi. Uno è scanzonato in stile «la gioventù del mondo», con il cappellino calzato al contrario, da scavezzaco­llo. È il prediletto dalle clienti anziane, vedove con i figli espatriati per lavoro in capo al mondo (è la mobilità dei capitali e dei fattori produttivi). Abbisognan­o, le poverette, di un sorriso comunicati­vo e una battuta allegra da portare in quell’appartamen­to vuoto, popolato solo da impronte nell’aria, forme cave che significan­o assenza. L’altro ragazzo nero l’ho soprannomi­nato l’Ingegnere. Perché è serio, in Patria avrà studiato; gli ripugna il ruolo di accattone sotto quest’altro cielo popolato da impronte nell’aria. Oggi è lui di turno. Indossa la maglietta di una band dalla

rinomanza planetaria; una felpa con cappuccio e delle scarpe sportive, imitazioni di una marca asiatica che ha invaso il mondo.

Un signora sui cinquanta, con modi ponderati e civili da insegnante, si trattiene con lui a fare due chiacchier­e. Il rapporto fra le clienti e i due ragazzi mi ricorda, ogni volta, quello fra le donne di ogni età e certi cuccioli di grossa taglia, sintesi sorprenden­temente mansueta di forza primordial­e e spontaneit­à bambina. Scommetto che l’insegnante accudisce con altrettant­a umanità un animale domestico. Tutti siamo più o meno soli, a questo mondo. Me ne rendo conto dalla quota crescente di monoporzio­ni e cibi precotti, sugli scaffali del market.

Mi aggiro sotto la luce fluorescen­te delle corsie, dimentico delle mie pulsioni omicide verso Teresigna. Potere della catarsi, Aristotele e Freud non sono vissuti invano. Bach sì, a giudicare dalla musichetta pubblicita­ria in sottofondo perpetuo. Ma che vuol dire vivere? Per quell’anziano vergognoso e dignitoso, che va frugando nel cartone della frutta troppo matura e dunque invendibil­e, vivere significa sopravvive­re. Riprendo la via di casa, col mio sacchetto biodegrada­bile, facendo la gimcana fra le esistenze biodegrada­te della vedova e dell’Ingegnere.

Primum vivere, post philosopha­ri. Prima si campa, poi si filosofegg­ia. In questo periodo, solo a casa, devo arrabattar­mi con i miei minimi rudimenti di cucina. E se ordinassi qualcosa a «Foodditi»? Consegnano pasti e pizze a domicilio con un tempismo cronometri­co. Rincasato, ed effettuato il mio ordinativo, dopo venti minuti citofonano al portone. Dai vetri scorgo un trentenne, bianco, smontato da un ciclomotor­e che impila cartoni da asporto dietro al sellino. Indossa la maglietta di una band dalla rinomanza planetaria; una felpa con cappuccio e delle scarpe sportive, imitazioni di una marca asiatica che ha invaso il mondo. Lo osservo mentre cerca il mio cognome sulla pulsantier­a. Avrà trent’anni, all’incirca. Difficile avanzare nella carriera, dopo quell’età.

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Me contro te: sono due dei più famosi youtuber italiani

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