Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ecco come mi sbarazzerei di youtuber e influencer
Non ho un animo crudele o sanguinario, il che non è poco per un essere umano. Non pratico il culto estetizzante dell’assassinio come una delle belle arti. E fin qui... Non stravedo nemmeno per i nostalgici del sacrificio rituale di osservanza azteca. Eppure sarei disposto ad armare e levare la mia mano contro di lei, Teresigna.
La mia prima scelta cadrebbe, non per motivi di gusto ma funzionali, su di una piccozza: penetrante come un pugnale, potente come un martello. Niente di personale, si capisce. Io agirei per salvare dal suo influsso di influencer i più giovani, dunque i più disarmati. Vale a dire le adolescenti abbindolate dalla sua vocetta ammiccante, in realtà querula e insipiente quanto il suo eloquio: una paccottiglia linguistica di italiano impoverito da frammenti di inglese e da neologismi anglicizzanti. Tutto così inerte. Tutto così caratteristico di chi non conosce davvero né l’una, né l’altra lingua che gli autentici poliglotti praticano separatamente, in modo impeccabile.
Mi sto avviando sullo stretto tracciato della pista ciclabile che contorna il parco pubblico. Macino metri e pensieri, pensieri e metri diretto verso il supermarket; sono sovrastato dal verso di un cuculo, estatico per la luce che lo centra sulla cima di un tiglio. Micheligna: la Youtuber. È contro di lei che formulo il mio atto d’accusa mentale. Lei la rea (3 orizzontale: colpevole, tre lettere) della catastrofe. Mi riferisco al fatto incontrovertibile che la catena di trasmissione del sapere fra le generazioni si è spezzata, per sempre. L’ultimo anello, la lettura, è venuto meno anche con il contributo degli Youtuber. Si sa, lo vedo: le adolescenti sono adescate e assorbite da faccette come quella di Teresigna. Visetti insinceri e smancerosi, sullo schermo retroilluminato dello smartphone, che non riescono a reprimere quel lampo truffaldino negli occhi. Occhi furbeschi da Youtuber che se la ride dal suo canale in Rete.
«Vi abbiamo raggirate anche oggi», lo leggo il compiacimento di Teresigna, sovrimpresso negli occhi. «Anche oggi, carine, abbiamo ricambiato la vostra buonafede da credulone con la nostra malafede da marpione al servizio delle aziende di cosmetici».
Perché lo Youtuber è spesso e volentieri questo: un imbonitore prezzolato che si guadagna da vivere pubblicizzando, via Internet, i prodotti dei suoi sponsor. È così che tu, nefasta Teresigna, trasformi la mente delle tue seguaci in un emporio. E perciò io, mentre l’insegna cubitale del supermarket mi viene incontro, perciò io sogno. Sogno e sceneggio e sublimo il mio odio sovrumano nei tuoi confronti. E mi allucino in questa scena: io sull’ultimo, vertiginoso gradino di una piramide azteca. Io, agghindato con la sobrietà del gran sacerdote, che sollevo per i capelli la tua testa, non sorprendentemente leggera. Ed espongo la tua gola alla luce assolata dell’altopiano, sibilando roco: «Ti devo immolare. È il tuo giorno del giudizio». E tu bofonchi, con un’incomprensione che ti rende stolida: «Il molare del giudizio?».
La scena si è dissolta: un cane con al guinzaglio la padrona mi ringhia contro, eccitato dal campo di forze elettromagnetiche proiettate, tutt’intorno, dai miei impulsi omicidi. «Attenzione», mi dico, «Non stai esagerando?». In fondo le influencer di seconda e terza fascia campicchiano con una sorta di obolo: un accredito di centesimi quando un utente consulta i loro video. Sono remunerate a visualizzazione; vivacchiano sul filo di una notorietà che potrebbe scemare, da un momento all’altro. Sono precarie con una certa visibilità, mi ripeto passando dalla luce cruda del piazzale all’ombroso porticato del supermarket. Lì stazionano e si alternano due africani, bravi ragazzi mai tracotanti. Il loro saluto è una sollecitazione, educata, all’obolo. Sono molto diversi. Uno è scanzonato in stile «la gioventù del mondo», con il cappellino calzato al contrario, da scavezzacollo. È il prediletto dalle clienti anziane, vedove con i figli espatriati per lavoro in capo al mondo (è la mobilità dei capitali e dei fattori produttivi). Abbisognano, le poverette, di un sorriso comunicativo e una battuta allegra da portare in quell’appartamento vuoto, popolato solo da impronte nell’aria, forme cave che significano assenza. L’altro ragazzo nero l’ho soprannominato l’Ingegnere. Perché è serio, in Patria avrà studiato; gli ripugna il ruolo di accattone sotto quest’altro cielo popolato da impronte nell’aria. Oggi è lui di turno. Indossa la maglietta di una band dalla
rinomanza planetaria; una felpa con cappuccio e delle scarpe sportive, imitazioni di una marca asiatica che ha invaso il mondo.
Un signora sui cinquanta, con modi ponderati e civili da insegnante, si trattiene con lui a fare due chiacchiere. Il rapporto fra le clienti e i due ragazzi mi ricorda, ogni volta, quello fra le donne di ogni età e certi cuccioli di grossa taglia, sintesi sorprendentemente mansueta di forza primordiale e spontaneità bambina. Scommetto che l’insegnante accudisce con altrettanta umanità un animale domestico. Tutti siamo più o meno soli, a questo mondo. Me ne rendo conto dalla quota crescente di monoporzioni e cibi precotti, sugli scaffali del market.
Mi aggiro sotto la luce fluorescente delle corsie, dimentico delle mie pulsioni omicide verso Teresigna. Potere della catarsi, Aristotele e Freud non sono vissuti invano. Bach sì, a giudicare dalla musichetta pubblicitaria in sottofondo perpetuo. Ma che vuol dire vivere? Per quell’anziano vergognoso e dignitoso, che va frugando nel cartone della frutta troppo matura e dunque invendibile, vivere significa sopravvivere. Riprendo la via di casa, col mio sacchetto biodegradabile, facendo la gimcana fra le esistenze biodegradate della vedova e dell’Ingegnere.
Primum vivere, post philosophari. Prima si campa, poi si filosofeggia. In questo periodo, solo a casa, devo arrabattarmi con i miei minimi rudimenti di cucina. E se ordinassi qualcosa a «Foodditi»? Consegnano pasti e pizze a domicilio con un tempismo cronometrico. Rincasato, ed effettuato il mio ordinativo, dopo venti minuti citofonano al portone. Dai vetri scorgo un trentenne, bianco, smontato da un ciclomotore che impila cartoni da asporto dietro al sellino. Indossa la maglietta di una band dalla rinomanza planetaria; una felpa con cappuccio e delle scarpe sportive, imitazioni di una marca asiatica che ha invaso il mondo. Lo osservo mentre cerca il mio cognome sulla pulsantiera. Avrà trent’anni, all’incirca. Difficile avanzare nella carriera, dopo quell’età.