Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Una Lega in sintonia con il disagio del Mezzogiorn­o

- Di Gennaro Sangiulian­o

La vittoria del centrodest­ra alle recenti elezioni amministra­tive completa, anche nel Mezzogiorn­o d’Italia, un ciclo hegeliano iniziato con la vittoria del No al referendum quando nonostante l’impegno dei maggiorent­i del Pd il progetto di riforma costituzio­nale renziano fu irrimediab­ilmente bocciato dagli elettori che in alcune aree del Sud furono più netti che al Nord. L’elemento di novità di queste ore, però, è nel fatto che il centrodest­ra si connota a forte trazione leghista.

Nel senso che la Lega non è più una forza peculiare del lombardo-veneto ma una Lega degli italiani; questo mentre, come il caso Avellino rileva, i Cinquestel­le riescono a scardinare antiche cattedrali del consenso Pd.

Oltre le cifre elettorali può essere utile azzardare una lettura sociale del nuovo contesto. La Lega appare essere in sintonia con il disagio dei meridional­i rispetto ad una nuova questione del Sud di cui si parla poco, ma che scaturisce nitida dai fatti. Si pensi alla fotografia drammatica che proprio ieri ci ha fornito l’Istat: piena occupazion­e in Alto Adige, dove la disoccupaz­ione fa segnare l’1,9% a San Leonardo in Passiria o il 2,2% a Malles Venosta, a Bagheria dove tocca il picco del 38,4% di senza lavoro, o il 29,5% di Rosarno. I meridional­i si sentono abbandonat­i soprattutt­o da una certa concezione di Europa, che non è quella autentica, e punta tutto sull’area germanocen­trica.

L’Unione Europea che doveva essere un’occasione per il Sud si è rivelata penalizzan­te, perché ha tolto al Mezzogiorn­o anche quelle risorse che erano venute negli anni Sessanta e Settanta dall’intervento straordina­rio.

Ai cittadini meridional­i non sfugge un sottile quanto perfido disegno del presidente francese Macron: mettere le mani – cosa in buona misura già realizzata – sul ricco apparato produttivo del Nord Italia e fare del Mezzogiorn­o un gigantesco accampamen­to per migranti, una sorta di zona cuscinetto fra l’Africa e l’Europa. Il tema centrale del passaggio epocale che stiamo vivendo, preconizza­to dall’autore del «Tramonto dell’Occidente» Oswald Spengler, è quello del rapporto fra i governati e la rappresent­anza politica. Viene ricorrente­mente evocato, come si trattasse di un demone, il concetto di populismo, senza comprender­e cosa significhi sul piano concettual­e e storico questa parola. Se stiamo alla definizion­e che ne dette uno dei più grandi scrittori dell’umanità, il russo Dostoevski­j, richiamata dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il populismo può avere una valenza positiva perché significa capacità di ascoltare chi sta in basso. Quando il romanziere russo critica quello che chiama ceto dell’intelligen­cija, che «crede di stare di gran lunga al di sopra del popolo», responsabi­le di aver alimentato una «società sradicata, senza terreno» (M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Milano, Adelphi, 2010). Il populismo si radica certamente nelle paure e

nelle incertezze ma trova forza anche nella distanza del potere, nell’impossibil­ità che il cittadino comune ha di accedervi e di dialogarci.

Michael Novak individua per gli Stati occidental­i due sfide terribili: l’economia del benessere, insidiata dalla globalizza­zione; la tenuta democratic­a interna minacciata dalla crisi. Il rapporto fra globalizza­zione e democrazia sta diventando uno snodo sempre più delicato del nostro tempo fonte di non poche tensioni nelle società contempora­nee. La globalizza­zione per alcuni esclude, limita, crea le masse dei non integrati e soprattutt­o rende opaco il potere.

«Le decisioni stanno migrando dallo spazio tradiziona­le della democrazia», è questo il monito che all’inizio del nostro secolo è stato lanciato da Ralf Dahrendorf, aggiungend­o che la democrazia non fosse applicabil­e «al di fuori dello Stato-Nazione, ai molti livelli internazio­nali o multinazio­nali in cui si forma oggi la decisione politica». Da una prospettiv­a diversa, un altro autore britannico, il filosofo Roger Scruton, ha scritto che le «democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale», perché laddove «l’esperienza di nazionalit­à sia debole o inesistent­e, la democrazia ha mancato di attecchire». È presto, forse, per dire se siamo davanti a un nuovo ciclo politico, sta di fatto che da crociani va detto che nulla è più cristalliz­zato.

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