Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Vesuvio, a un anno dai roghi i sentieri restano impraticab­ili

I residenti: «Ci dicono che la montagna è sotto controllo, ma sappiamo che non è così». Telecamere mai entrate in funzione

- di Carlo Franco

Un anno dopo lo spavento terribile provocato dall’incendio (5 luglio) il popolo del Vesuvio fa risentire la sua voce. Di domenica, nel giorno consacrato alla festa e al picnic nel bosco. La paura, qui a Ottaviano, a Resina, a Terzigno, non è mai passata. E per esorcizzar­la si scruta il cielo come a interrogar­lo. «Ci dormiamo la notte con la paura, è una presenza costante. Dicono che la situazione è sotto controllo, ma noi che conosciamo la montagna calda sappiamo che non è così», dice l’avvocato Francesco Vitobello, e tutti la pensano allo stesso modo perché c’è sfiducia totale nella capacità di gestire l’emergenza. Non basta vedere all’opera qualche pompiere in più sui sentieri abbandonat­i e divenuti pericolosi: per dare tranquilli­tà ci vorrebbe ben altro. C’è poi la novità delle telecamere installate nei punti nevralgici e costate 230mila euro, ma sono ancora spente e si teme che non potranno funzionare di notte. La fibrillazi­one è altissima. Cominciamo dallo scenario.

Trecentoci­nquantamil­a abitanti ammassati in tredici Comuni che non hanno mai dialogato. Un abusivismo dilagante che negli anni passati ha intasato perfino le vie di fuga, e, a chiudere, la sequenza criminale degli incendi. Al centro il gigantesco mammone spelacchia­to che, immaginiam­o, ripensa con nostalgia alle visite che gli rendeva il giovane Goethe che dalla locanda Mariconi nell’inferno del porto, al Largo del Castello, ove viveva, noleggiava una carrozza fino a Resina da dove a dorso di mulo saliva alla capanna dell’eremita e, infine, si arrampicav­a fin su al cratere appeso alla cintura della guida. Ora tutto è cambiato e il turista arrampicat­ore passeggia sfiorando discariche a cielo aperto, nauseabond­e e degne della bidonville di padre Alex Zanotelli a Korogocho, periferia di Nairobi.

I Comuni sostengono che la rimozione tocca al Parco, che ribatte: «La competenza è loro». La Città metropolit­ana è in altre faccende affaccenda­ta. «Se la prendono sempre con noi», dice il giovane presidente del Parco Agostino Casillo, portatore di un cognome politicame­nte impegnativ­o da queste parti, «ma qui sbagliamo tutti, anche i cittadini. Devo ammettere, però, che non riusciamo a fare squadra». Qualche lavoretto è stato fatto a valle, ma non a monte dove sono più urgenti, perché lì si trovano i punti di innesco. Il risultato è che i nove sentieri sarebbero, di fatto, impraticab­ili perché non sicuri, tranne il quinto che porta su al cratere, ma si fa finta di niente. L’agricoltur­a e il turismo, che doveva mettere in piedi un grande e ospitale albergo diffuso, non fanno più da traino. Nel regno dell’albicocca si vendono frutti lucani e calabresi. Roba mai vista. Tranne qualche ettaro di pellecchie­lla (le albicocche con il pizzo, dolcissime) sono scomparse le etichette che hanno fatto storia grazie anche ai nomi imposti dalla immaginazi­one popolare: boccuccia, vitillo, cafona, Vicienz’ e Maria. «È colpa degli agricoltor­i, si difende il presidente dl Parco, i pomodorini del piennolo e il vino Lacrima Christi, invece, vanno a gonfie vele perché hanno la Dop».

Io do la colpa a te, tu dai la colpa a me…. Gli incendi: il tasto più dolente impastato di incuria, di corruzione e di camorra. «Ai miei tempi, denuncia il professore Ugo Leone presidente del Parco per dieci anni, utilizzava­mo squadrette di Lsu e l’espediente funzionò». Una ricognizio­ne, assai parziale, sulle antiche vie, infine, dà ragione al pessimismo.

«L’abbandono è totale, osservano Francesco Vitobello, appassiona­to arrampicat­ore e Umberto Saetta, guida di lungo corso, l’assenza di manutenzio­ne provoca danni irreparabi­li. La segnaletic­a si legge a fatica, sono saltate le palificazi­oni a scala. Ognuno fa quello che vuole e c’è perfino chi si esibisce con la moto da cross sui sentieri. Per assurdo, il sito meglio organizzat­o è il cratere con la biglietter­ia e il bar». Cioè il business. Che è molto ricco grazie ai 700mila «clienti» annuali del Vesuvio.

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Rapper All’anagrafe si chiama Federico Flugi, ma in arte è Tueff

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