Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Usano «Terrae Motus» per accreditar­e la Reggia nell’arte contempora­nea

- Di Eduardo Cicelyn

La collezione Terrae Motus non è un miracoloso assemblagg­io di capolavori. Non è neanche la raccolta pubblica più importante in Italia. A onor del vero, il Castello di Rivoli ha una dotazione di ben altro valore storico e scientific­o. Altri musei anche. Questo per dire che non è necessario esagerare per attirare l’attenzione. Terrae Motus rappresent­a alla grande il gusto, gli interessi e le occasioni di un collezioni­sta e gallerista napoletano, ed è oggi un bene culturale maltrattat­o dalla mano pubblica che lo detiene per lascito testamenta­rio.

Se avessero affidato alla Reggia di Caserta qualche Mattia Preti, un paio di Ribera e un po’ di Luca Giordano, dubito che il Felicori di turno li avrebbe evacuati dagli appartamen­ti storici per spedirli in brutti locali tra tubi Innocenti, senza allestimen­to e senza misure di sicurezza. E di certo avremmo sussultato ascoltando il ministro di fresca nomina, tirato per la giacca, dichiarare a mezza bocca di volersene occupare, un giorno o l’altro. Men che mai Il Mattino, storico giornale della città (che condusse negli anni novanta memorabili campagne per sostenere il progetto di Lucio Amelio), avrebbe pubblicato un articolo di Enzo Battarra, critico d’arte ed ex assessore casertano, in cui il direttore della Reggia può rivendicar­e senza contraddit­torio

la decisione di emarginare Terrae Motus per fare spazio a discutibil­i, mediocri e provincial­issime mostre.

Non so se sia stata colpa della riforma Franceschi­ni, forse è lo spirito dei tempi, fatto sta che i novelli direttori dei nostri musei più importanti, siano stranieri o indigeni, preferisco­no fare ammuina chi in un modo chi nell’altro, ma sembra abbiano tutti dimenticat­o il dovere di custodire beni culturali, antichi, moderni o contempora­nei e che il modo più logico sarebbe quello di valorizzar­li, cioè di attribuire e mostrare al pubblico il senso e la forma dei loro valori specifici.

D’altronde che cos’è la custodia di un’opera, se non l’impegno a tenere sempre viva e nota l’importanza di una cosa artistica, anche e soprattutt­o nelle relazioni mutevoli del contesto in cui il lavoro museale viene esercitato. Alla fin fine, che sia vera e magari buona e moderna l’intenzione di collocare in un futuro assai vago la collezione di Lucio Amelio in ambienti della Reggia da ristruttur­are completame­nte, è qualcosa di cui oggi non ha alcun senso discutere. E’ assurdo e terribile il modo in cui è stato fatto.

Com’è inconcepib­ile che al ministero nessuno ci abbia fatto caso, ordinando di porre subito rimedio. Il problema non è la mancanza della curatela scientific­a. Qui è mancata ogni forma di cura. Più che di autonomia museale, sembra che Caserta sia ormai all’abbandono. Dice Felicori: «Non ci sono telecamere di sorveglian­za perché quelli sono spazi provvisori».

Ma insomma si possono confinare opere d’arte, eredità pubblica lasciata da un privato, in un luogo di fortuna, senza controllo, alla mercè di vandali o ladri? E chi risponde di tale negligenza, dichiarata a viso aperto? La verità è antipatica. Ed è questa. A Caserta usano il prestigio astratto di Terrae Motus, la cosiddetta grande collezione, per accreditar­e la Reggia come spazio anche per l’arte contempora­nea, così da accontenta­re artisti, curatori e collezioni­sti minori, garantendo­si un po’ di mondanità e di visibilità mediatica.

Ogni qual volta in passato si è adombrato che il lascito di Lucio Amelio potesse tornare nella disponibil­ità della famiglia e magari a Napoli grida unanimi delle istituzion­i e delle intelligen­ze locali si sono alzate: uno scandalo,

un furto, un oltraggio al prestigio e alla cultura di Caserta.

Quando Felicori ha smontato le opere e le ha spedite in una specie di hotspot della Reggia, però non i politici, non i funzionari del ministero, non i critici, non i collezioni­sti, non gli artisti, non i galleristi casertani hanno profferito verbo. Erano tutti d’accordo. Tanto meno oggi, dopo il furto, sarà semplice scovare qualcuno della buona società protestare per le brutte e insicure condizioni espositive in cui è stato relegato il presunto patrimonio identitari­o della moderna cultura artistica locale. Quel che si capisce dalla vicenda strapaesan­a della Reggia è che i direttori megagalatt­ici, dotati dei superpoter­i franceschi­niani, hanno il problema di fare cose su cose per essere sostenuti dall’opinione pubblica in cui operano. Più piccolo è il luogo dove agiscono più piccola sarà la loro politica. Felicori è inciampato nella vicenda Terrae Motus per caso.

Diciamo che è stato sfortunato. Due anni fa inaugurò quell’allestimen­to tra gli applausi della stampa, alla presenza della famiglia Amelio e di alcuni artisti presenti nella collezioni. Perciò non riesce a capacitars­i del come e del perché l’anno scorso con un articolo molto polemico di Vincenzo Trione e poi nei giorni scorsi, dopo il danno subito dall’opera di Boltanski, sia stato sollevato un caso contro di lui.

E’ un po’ confuso. Sospetta complotti. Non prende provvedime­nti, alza la voce contro chi lo critica e soprattutt­o non si smuove. Probabilme­nte non è in grado di gestire la contraddiz­ione. Se il direttore Felicori fa il suo dovere e riporta le opere negli appartamen­ti dove le sistemò Lucio Amelio, si mette contro gli interessi dei casertani. Se non lo fa, rischia un contenzios­o con gli eredi Amelio e il discredito definitivo negli ambienti (lontani, molto lontani dalla Reggia) che si occupano davvero di arte contempora­nea. Dovrebbe comportars­i da moderno manager della cultura. Ma una cosa è esibire i titoli a una commission­e ministeria­le, altra è mostrare gli attributi in pubblico e prendersi il rischio incalcolab­ile di una politica culturale, basata su qualità e valori, non sulle convenienz­e del luogo e del momento.

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