Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Una nuova comunità contro l’indifferenza
Una mostra nel capoluogo lombardo ricorda la figura del sindaco socialista Caldara, che dopo Caporetto accolse i reduci dalla disfatta. Un esempio a cui guardare anche a Mezzogiorno, in un clima di disgregazione politica
Visitando Milano e la prima guerra mondiale: Caporetto, la Vittoria,
Wilson, la bella mostra che il Comune di Milano ha dedicato a Palazzo Morando ad Emilio Caldara, primo sindaco socialista della città tra il 1914 e il 1919, mi sono venute in mente alcune pagine memorabili, ambientate a Napoli nel medesimo periodo, di Clotilde tra le due
guerre di Elena Canino, libro dimenticato ma ancora attualissimo per capire l’Italia, e Napoli, in quegli anni.
Clotilde, figlia di una famiglia borghese e fedele allo Stato, ricorda nel suo diario le parole con cui il suo futuro suocero, fervente liberale, aveva descritto il fascismo: «Ora i giovani non devono avere più preoccupazioni. Il fascismo risanerà la nazione, porterà avanti forze fresche. Io sono stato sempre liberale e liberale morirò, però non nascondo le mie simpatie per questo movimento. Alla vigilia della Marcia, Napoli pareva una città rinata, un entusiasmo, una fiducia che da un pezzo non si sentiva più». Era il lontano 16 gennaio del 1923.
Per tanti aspetti gli anni difficili a cavallo della disfatta di Caporetto, la successiva insperata vittoria e quindi l’avvento del fascismo, ritornano di attualità in questi giorni. Caporetto rappresenta ancora, a cent’anni di distanza, la principale debacle di tutta la nostra storia, l’evento-simbolo di una italietta propensa a subire le peggiori sconfitte, a causa dell’impreparazione delle classi dirigenti, ma anche di quell’eccesso di ottimismo che gli italiani sembrano spesso pronti a elargire in grandi quantità e a sproposito. Anche in quell’occasione infatti il «lieto fine» tardò ad arrivare, dopo Caporetto cademmo nel peggiore dei mali: prevalse l’egoismo di massa e l’invidia, la cieca volontà di distruggere il passato recente, ci affidammo all’uomo della provvidenza e al fascismo.
Emilio Caldara è stato, neanche a dirlo, una eccezione. Sindaco socialista, eletto nel 1914 a pochi mesi dall’ingresso in guerra, agì a tutela degli interessi dei ceti meno abbienti della città. Capì che la guerra avrebbe colpito soprattutto i più deboli, gli indifesi, le zone periferiche praticamente prive di servizi. Non derogò dall’uso di un tono rivoluzionario neanche mentre faceva scrivere i manifesti del Comune. Pur capendo che Milano era una comunità isolata, non nascose il «grande orgoglio che ci colma l’animo per questa nostra generosa città che impone a se stessa la propria legge» e che per questo «serra nel pugno i destini della nazione». Con l’amministrazione Caldara nascono decine di associazioni e centri di assistenza oggi ancora operanti e che hanno contribuito a rendere la solidarietà in questa città una usanza normale.
La mostra ricorda che, quando dopo la disfatta del ‘17 si pose il problema se accogliere o meno le decine di migliaia di ita- liani in fuga dal fronte, Caldara non volle sentire ragioni e aprì le porte della città. Così Milano diede soccorso ad oltre 72.000 persone, soprattutto provenienti dal nordest.
Ancora oggi questo episodio è ricordato come uno dei più importanti nella ricostruzione del fronte italiano e fu ritenuto già all’epoca uno degli atti più generosi di resistenza civile a sostegno della «Patria che non si arrende».
L’iniziativa ebbe una tale risonanza internazionale che perfino il presidente americano Wilson, in visita in Europa a conclusione del conflitto, volle recarsi a Milano e conoscere personalmente questo sindaco che, praticamente da solo, aveva contribuito a cambiare lo stato d’animo di un intero popolo, dando forza morale alle truppe sul Piave. Milano festeggiò il 5 gennaio del 1919 il presidente statunitense e il proprio sindaco, salvo poi non rieleggerlo nelle successive elezioni amministrative.
All’epoca Napoli era molto lontana dal fronte e in generale da questi sentimenti, benché la leva dei giovanissimi del ‘99 avesse spinto tanti ragazzi del sud, per lo più prelevati nelle campagne e nel profondo meridione, verso le trincee. La guerra a Napoli era motivo di accese discussioni che alimentavano capannelli per le strade. Clotilde ricorda nel suo diario di quando andava come crocerossina alla stazione ferroviaria di Napoli a distribuire caffè alle truppe in transito raccogliendo in cambio solo parolacce e apprezzamenti irripetibili. La sua famiglia, dove i suoi genitori imponevano duri sacrifici, era giudicata malissimo dai poveri servitori. La mattina che si diffuse la notizia di Caporetto, a Napoli fu accolta in silenzio dalla folla incredula seduta nei bar.
Anche in questo caso la storia ci rimanda ad una lettura di un paese provvisto di due facce ben distinte. Ed è lecito chiedersi ancora oggi perché dovrebbe procedere unito. È giunto il momento di interrogarsi su quale passaggio della nostra storia unitaria dobbiamo tornare a considerare per capire meglio non solo la crisi di identità in cui versiamo, ma anche l’assenza di una coscienza pubblica e nazionale, la carenza di una cultura dello Stato, la delusione per il sogno europeo.
Sicuramente il sud non ha avuto e non ha un ruolo marginale nelle vicende politiche del Paese. Anche stavolta – mi riferisco al voto del 4 marzo – ha riscoperto un protagonismo politico, arrivando a compattare il proprio voto e decidendo di puntare tutte le proprie carte sulla novità del momento. Ma lo ha fatto ancora una volta intestardendosi a perseguire facili chimere,
Classi dirigenti
Caporetto rappresenta ancora la principale debacle di tutta la nostra storia, l’evento-simbolo di una italietta che subisce le peggiori sconfitte, per l’impreparazione delle classi dirigenti
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Elezioni
Sicuramente il sud non ha avuto e non ha un ruolo marginale nelle vicende politiche del Paese. Anche stavolta – col voto del 4 marzo – ha deciso di puntare tutte le proprie carte sulla novità del momento
a difesa di interessi generici, senza essere interessato a negoziare i termini di una più equa distribuzione delle risorse disponibili. In fin dei conti, accontentandosi delle briciole.
È riapparso anche in questo caso un generico e ingiustificato ottimismo, che considera un cambiamento qualsiasi un fatto comunque positivo, qualcosa che non può che portare del bene per tutti e comunque nulla di peggio di quello che già si è visto e subìto. Ma di chi è la colpa di questo modo di guardare al futuro? Possiamo ancora una volta assolvere per questo le classi dirigenti?
A questo proposito cito il diario di Clotilde, che avendo avuto la fortuna di frequentare la casa dei Croce a Sorrento, catturò a pochi giorni dal crollo del fascismo e dall’ingresso degli Alleati a Napoli, questa illuminante considerazione del vecchio senatore: «Il popolo tedesco è meccanico, macchine ben congeniate, perfette, ma se si spezza il minimo congegno in tanta perfezione, per loro è la fine. Il popolo italiano gli è superiore pur nella sua modestia. Spezzato un congegno, rimedia. Fondamentalmente artigiano com’è, conosce mille ingegnosi ripieghi. Sostituisce un mezzo di fortuna e con esso torna a generare il movimento e la vita».
Forse il punto è proprio qui, dovremmo semplicemente smetterla di pensare che alla fine, con un po’ di fortuna e la proverbiale fantasia, una soluzione in qualche modo la troviamo sempre.