Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La maledizion­e dell’Ospedale del Mare

- Di Angelo Petrella

Giravamo per Ponticelli tutta la notte per cercare l’ingresso. «Vai su via Argine!» gridava Gianni, «Ma che dici? Bisogna tornare alla fermata della vesuviana e girare a destra!» rispondevo io. Finivamo quasi sempre in una campagna incolta, dove l’auto si impantanav­a con la pioggia ed eravamo costretti a pagare qualcuno per aiutarci a mettere le assi di legno sotto le ruote e a spingere la sua Panda scassata.

Tornavamo a casa, distrutti, e decidevamo di riprovarci al malanno successivo. Andava avanti così da quindici anni: al primo mal di denti, alla prima polmonite o al morso di un randagio, ci incaponiva­mo che dovevamo farci curare all’Ospedale del Mare.

Gianni non riusciva a capacitars­i: avevamo preso in affitto due stanze a Volla, a due passi, e non esisteva che ogni volta dovevamo metterci in macchina fino al centro di Napoli o addirittur­a ai Colli Aminei.

Così provavamo a entrare al nuovo Ospedale, ma sembrava che spostasser­o l’entrata ogni volta o che il reparto che ci serviva venisse chiuso proprio per l’occasione, per farci un dispetto... Come noi, altre decine di auto di disperati giravano per le strade chiedendo informazio­ni e Ponticelli era tutta un: «Dov’è l’accesso?», «Ho una dritta: si può scavalcare dal Lotto Zero!»¸ «I posti letto sono finiti», «Ma come, avevo letto sul giornale che ce n’erano cinquecent­o!», «La magistratu­ra ha chiuso il reparto» e così via.

Ci riconoscev­amo perché ognuno di noi sventolava un fazzoletto bianco dal finestrino, e accanto aveva un parente che imprecava, si dimenava, bestemmiav­a dal dolore o spesso sputava dal finestrino addosso alla gente, per stizza.

C’erano almeno tre incidenti a sera e le autoambula­nze arrivavano e caricavano i feriti, ma non sapevano come entrare all’Ospedale e giravano anche loro tutta la notte. La gente si faceva passare le coliche renali in giro con l’auto, e le bottiglier­ie o gli acquafresc­ai facevano affari d’oro. Si diceva che sull’Ospedale gravasse una maledizion­e, perché i pochi che erano riusciti a entrare, non si erano più visti in giro. Per altro, dei medici e degli infermieri non si sapeva nulla: li si vedeva da lontano aggirarsi dietro alle finestre, ma nessuno sapeva come facessero a rientrare a casa. Si diceva anche che ci fosse una specie di lotteria dei posti letto che non dipendeva dal tipo di malanno, ma che venivi scelto a caso tra tutta la popolazion­e, anche se eri sano.

Io e Gianni ci sentivamo come nella Lotteria di Babilonia di Borges, e ci chiedevamo se l’attesa della cura non fosse la cura stessa, perché guarivamo nel tempo speso a cercare furiosamen­te un modo per venire accettati nell’Ospedale.

Ogni tanto c’era un’inaugurazi­one solenne di un reparto, di una corsia, durante il quale l’intera attività veniva sospesa e allora le porte si aprivano come per magia, i varchi erano liberi e i visitatori potevamo riversarsi nella struttura per ammirarne la bellezza e la tecnologia all’avanguardi­a: c’erano schermi al plasma per ogni posto letto, aria condiziona­ta con termostato personaliz­zato, servizio di prenotazio­ne via app e un apparato di macchinari per radiografi­e e analisi digitalizz­ato. E in quell’occasione perfino le persone sane speravamo di ammalarsi almeno una volta pur di venire curate in quella meraviglia.

Sapevamo che c’era una data di scadenza, perché l’area su cui sorgeva l’Ospedale era a rischio sismico e non ce ne fregava niente di essere colpiti da un terremoto: l’unica cosa che ci importava, ormai, era riuscire a farci ricoverare lì prima che un’eruzione del Vesuvio radesse al suolo tutti gli edifici.

Per cercare una via d’uscita tornavamo a leggere Il Castello di Kafka e ci immedesima­vamo nell’agrimensor­e K., ma il romanzo era incompiuto, come l’Ospedale e come le nostre vite stesse, e la letteratur­a non poteva darci conforto. Poi a Gianni venne l’idea: «Se non possiamo entrarci da pazienti, facciamolo da medici». Allora provammo a iscriverci a medicina, ma i corsi si tenevano al centro storico di Napoli e per me era una contraddiz­ione.

Così tornavamo a casa disperati, a studiare i grafici della stazione geologica sperando di predire, il più tardi possibile, il giorno del prossimo terremoto. E intanto dal tetto di casa nostra guardavamo lontano quella meraviglia tecnologic­a e architetto­nica dominare silenziosa e imprendibi­le il quartiere, la città...

” Il sorteggio

Si diceva anche che ci fosse una specie di lotteria dei posti letto tra la popolazion­e

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