Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Teatro Festival
Cala il sipario su una rassegna controversa e talvolta incoerente
«Ma l’allestimento che vedrete non ha scene; soltanto due leggii e una panca. In realtà, non dovevamo venire al Festival, ma l’insistenza è stata tale che abbiamo accettato, portando però una versione sospesa tra lettura e miseen-scène».
È la dichiarazione di Laetitia Casta pubblicata da «Il Mattino» il 3 luglio scorso. Non ha ottenuto alcun commento. E invece un commento ci voleva, perché si tratta di una dichiarazione piuttosto grave. In pratica, costituisce una sorta di emblema dell’edizione del Napoli Teatro Festival Italia che si conclude oggi.
S’impongono al riguardo due semplici domande, una rivolta alla Casta e l’altra a Ruggero Cappuccio, direttore artistico del Napoli Teatro Festival Italia. Perché, signora Casta, è venuta al Festival pur non avendo da portarci, come Lei dichiara, un vero e proprio spettacolo, ma solo un ibrido, sostanzialmente una prova in vista di un allestimento definitivo di là da venire? E perché Lei, Cappuccio, si è preso quest’ibrido, dichiarato come tale dalla stessa protagonista?
Evidentemente, Lei ha obbedito all’imperativo categorico che segnalammo da queste pagine nel commentare il cartellone 2018 del Festival: quello di mettere in vetrina (perché, così come si presenta, il Napoli Teatro Festival Italia non è che un’inutile vetrina) solo i capi garantiti da firme accorsate, ovvero il maggior numero possibile di nomi eclatanti.
Peraltro, di letture, totali o parziali, il Festival di quest’anno ha abbondato: infatti, erano in tutto o in parte letture ben quattro («L’amante», «Fedeli d’amore», «Brodskij/ Baryshnikov» e appunto «Scènes de la vie conjugale») dei dieci spettacoli che ho visto. E in base al calcolo delle probabilità, c’è da presumere che la faccenda si sia ripetuta. Visto ch’erano in cartellone la bellezza di 55 (cinquantacinque) titoli.
Aggiungo, in breve, che ho visto solo dieci degli spettacoli in programma perché non me ne sono stati mandati i testi, che avevo chiesto (intendo quelli nuovi) all’ufficio stampa del Festival con oltre un mese d’anticipo rispetto all’inizio della rassegna. Pochissimi giorni prima del via, mi è stato detto che i testi stranieri non erano stati ancora tradotti perché non erano stati ancora firmati i contratti con la società che doveva provvedere alla traduzione, Il che può significare solo una cosa, che sono andati in scena testi tradotti in fretta e furia all’ultimo momento. E per quanto riguarda i testi nuovi in italiano, alla vigilia del debutto più di una compagnia mi ha confessato candidamente (leggi cinicamente) che non poteva fornirmeli perché stavano tuttora mettendoli a punto.
Ripeto, ogni giudizio di valore implica un termine di paragone. E faccio, in proposito, il paragone con «Primavera dei Teatri», il piccolo ma prezioso Festival che un gruppo di coraggiosi (Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano) porta avanti con quattro soldi nel deserto di Castrovillari. Dei nove spettacoli che quest’anno sono andato a vedere lì («Amleto take away», «Calcinculo», «Confessioni di un masochista», «Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?», «Essere bugiardo», «Extremophile», «Nella fossa», «Intimità» e «Overload») mi sono stati mandati a casa i testi con oltre un mese di anticipo rispetto alle date in cui sono stati presentati.
Intanto, sono appena tornato da Spoleto, dove, nell’ambito della sessantunesima edizione del Festival dei Due Mondi, è stato presentato quello che ritengo sia il miglior musical che abbia mai visto, in oltre cinquant’anni di attività, fra Europa e Stati Uniti. Parlo di «The Beggar’s Opera», il capolavoro settecentesco di John Gay che ispirò, come sappiamo, «L’opera da tre soldi» di Brecht e Weill. A presentarlo era il Théâtre des Bouffes du Nord, il centro di produzione diretto a Parigi da Peter Brook. E non a caso, perché proprio Brook firmò, nel 1953, la versione cinematografica di quella che viene considerata la prima commedia musicale della storia.
Altrove, insomma, si procede sui binari della logica e della coerenza. E tralasciando il livello tecnico eccezionale dell’allestimento di «The Beggar’s Opera» che ho visto a Spoleto, garantito dalla regia di Robert Carsen, uno dei migliori registi d’opera lirica del mondo, mi limito solo a una considerazione.
Robert Carsen cominciò, come aiuto regista, proprio al Festival dei Due Mondi. E dun- que, il Festival dei Due Mondi, che, accogliendo questo spettacolo di Carsen, ha dimostrato di aver seminato bene, e Carsen, che è approdato a questo spettacolo dopo quarant’anni (a far data da quell’esordio umile) di lavoro e di esperienze, hanno reso insieme onore alla propria storia, e così hanno dato una sacrosanta lezione a chi (persone o eventi, e quindi pure festival) una storia non ce l’ha (o, almeno, non ce l’ha ancora) e tuttavia s’impanca a modello imprescindibile.
Chiudo con un episodio che farebbe ridere se, purtroppo, non fosse l’ennesimo indice dell’ignoranza e della sciatteria con cui dalle nostre parti si sperpera il danaro pubblico. Nell’allestimento di «Scene da un matrimonio», diretto da Konchalovskij e coprodotto dal Festival e dal Teatro Stabile di Napoli, a un certo punto veniva proiettato il brano di un telegiornale in cui si parlava della grande attesa che c’era a Roma per l’arrivo all’Argentina di «Casa di bambola» prodotto dal Piccolo Teatro di Milano con la regia di Strehler. E i conti davvero non tornano.
Konchalovskij ha ambientato il plot di «Scene da un matrimonio» per l’appunto a Roma, e negli anni Sessanta. Ma la «Casa di bambola» di Strehler è di un decennio prima, per l’esattezza debuttò il 13 febbraio del ‘51 al Donizetti di Bergamo. E in quell’anno e nell’anno successivo venne data a Milano, Ivrea, Lecco, Pavia, Bologna, Genova, Lugano, Torino e Mantova. A Roma, e men che meno all’Argentina, non arrivò, mai.
Ho fatto in proposito un ricerca incrociata con la preziosa assistenza di Valentina Cravino e Amelia Realino, responsabili, rispettivamente, degli uffici stampa del Piccolo e del Teatro di Roma. E adesso delle due l’una: o il telegiornale comparso nello spettacolo di Konchalovskij era un falso o diceva una madornale sciocchezza, di cui Konchalovskij e chi ne ha portato lo spettacolo al Festival non si sono accorti. Urge, caro Maurizio de Giovanni, l’intervento del tuo sagace ancorché (come tutti noi) malinconico commissario Ricciardi.
Alla vigilia del debutto più di una compagnia mi ha confessato candidamente (leggi cinicamente) che non poteva fornirmi testi perché stavano tuttora mettendoli a punto