Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Teatro Festival

Cala il sipario su una rassegna controvers­a e talvolta incoerente

- di Enrico Fiore

«Ma l’allestimen­to che vedrete non ha scene; soltanto due leggii e una panca. In realtà, non dovevamo venire al Festival, ma l’insistenza è stata tale che abbiamo accettato, portando però una versione sospesa tra lettura e miseen-scène».

È la dichiarazi­one di Laetitia Casta pubblicata da «Il Mattino» il 3 luglio scorso. Non ha ottenuto alcun commento. E invece un commento ci voleva, perché si tratta di una dichiarazi­one piuttosto grave. In pratica, costituisc­e una sorta di emblema dell’edizione del Napoli Teatro Festival Italia che si conclude oggi.

S’impongono al riguardo due semplici domande, una rivolta alla Casta e l’altra a Ruggero Cappuccio, direttore artistico del Napoli Teatro Festival Italia. Perché, signora Casta, è venuta al Festival pur non avendo da portarci, come Lei dichiara, un vero e proprio spettacolo, ma solo un ibrido, sostanzial­mente una prova in vista di un allestimen­to definitivo di là da venire? E perché Lei, Cappuccio, si è preso quest’ibrido, dichiarato come tale dalla stessa protagonis­ta?

Evidenteme­nte, Lei ha obbedito all’imperativo categorico che segnalammo da queste pagine nel commentare il cartellone 2018 del Festival: quello di mettere in vetrina (perché, così come si presenta, il Napoli Teatro Festival Italia non è che un’inutile vetrina) solo i capi garantiti da firme accorsate, ovvero il maggior numero possibile di nomi eclatanti.

Peraltro, di letture, totali o parziali, il Festival di quest’anno ha abbondato: infatti, erano in tutto o in parte letture ben quattro («L’amante», «Fedeli d’amore», «Brodskij/ Baryshniko­v» e appunto «Scènes de la vie conjugale») dei dieci spettacoli che ho visto. E in base al calcolo delle probabilit­à, c’è da presumere che la faccenda si sia ripetuta. Visto ch’erano in cartellone la bellezza di 55 (cinquantac­inque) titoli.

Aggiungo, in breve, che ho visto solo dieci degli spettacoli in programma perché non me ne sono stati mandati i testi, che avevo chiesto (intendo quelli nuovi) all’ufficio stampa del Festival con oltre un mese d’anticipo rispetto all’inizio della rassegna. Pochissimi giorni prima del via, mi è stato detto che i testi stranieri non erano stati ancora tradotti perché non erano stati ancora firmati i contratti con la società che doveva provvedere alla traduzione, Il che può significar­e solo una cosa, che sono andati in scena testi tradotti in fretta e furia all’ultimo momento. E per quanto riguarda i testi nuovi in italiano, alla vigilia del debutto più di una compagnia mi ha confessato candidamen­te (leggi cinicament­e) che non poteva fornirmeli perché stavano tuttora mettendoli a punto.

Ripeto, ogni giudizio di valore implica un termine di paragone. E faccio, in proposito, il paragone con «Primavera dei Teatri», il piccolo ma prezioso Festival che un gruppo di coraggiosi (Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano) porta avanti con quattro soldi nel deserto di Castrovill­ari. Dei nove spettacoli che quest’anno sono andato a vedere lì («Amleto take away», «Calcinculo», «Confession­i di un masochista», «Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?», «Essere bugiardo», «Extremophi­le», «Nella fossa», «Intimità» e «Overload») mi sono stati mandati a casa i testi con oltre un mese di anticipo rispetto alle date in cui sono stati presentati.

Intanto, sono appena tornato da Spoleto, dove, nell’ambito della sessantune­sima edizione del Festival dei Due Mondi, è stato presentato quello che ritengo sia il miglior musical che abbia mai visto, in oltre cinquant’anni di attività, fra Europa e Stati Uniti. Parlo di «The Beggar’s Opera», il capolavoro settecente­sco di John Gay che ispirò, come sappiamo, «L’opera da tre soldi» di Brecht e Weill. A presentarl­o era il Théâtre des Bouffes du Nord, il centro di produzione diretto a Parigi da Peter Brook. E non a caso, perché proprio Brook firmò, nel 1953, la versione cinematogr­afica di quella che viene considerat­a la prima commedia musicale della storia.

Altrove, insomma, si procede sui binari della logica e della coerenza. E tralascian­do il livello tecnico eccezional­e dell’allestimen­to di «The Beggar’s Opera» che ho visto a Spoleto, garantito dalla regia di Robert Carsen, uno dei migliori registi d’opera lirica del mondo, mi limito solo a una consideraz­ione.

Robert Carsen cominciò, come aiuto regista, proprio al Festival dei Due Mondi. E dun- que, il Festival dei Due Mondi, che, accogliend­o questo spettacolo di Carsen, ha dimostrato di aver seminato bene, e Carsen, che è approdato a questo spettacolo dopo quarant’anni (a far data da quell’esordio umile) di lavoro e di esperienze, hanno reso insieme onore alla propria storia, e così hanno dato una sacrosanta lezione a chi (persone o eventi, e quindi pure festival) una storia non ce l’ha (o, almeno, non ce l’ha ancora) e tuttavia s’impanca a modello imprescind­ibile.

Chiudo con un episodio che farebbe ridere se, purtroppo, non fosse l’ennesimo indice dell’ignoranza e della sciatteria con cui dalle nostre parti si sperpera il danaro pubblico. Nell’allestimen­to di «Scene da un matrimonio», diretto da Konchalovs­kij e coprodotto dal Festival e dal Teatro Stabile di Napoli, a un certo punto veniva proiettato il brano di un telegiorna­le in cui si parlava della grande attesa che c’era a Roma per l’arrivo all’Argentina di «Casa di bambola» prodotto dal Piccolo Teatro di Milano con la regia di Strehler. E i conti davvero non tornano.

Konchalovs­kij ha ambientato il plot di «Scene da un matrimonio» per l’appunto a Roma, e negli anni Sessanta. Ma la «Casa di bambola» di Strehler è di un decennio prima, per l’esattezza debuttò il 13 febbraio del ‘51 al Donizetti di Bergamo. E in quell’anno e nell’anno successivo venne data a Milano, Ivrea, Lecco, Pavia, Bologna, Genova, Lugano, Torino e Mantova. A Roma, e men che meno all’Argentina, non arrivò, mai.

Ho fatto in proposito un ricerca incrociata con la preziosa assistenza di Valentina Cravino e Amelia Realino, responsabi­li, rispettiva­mente, degli uffici stampa del Piccolo e del Teatro di Roma. E adesso delle due l’una: o il telegiorna­le comparso nello spettacolo di Konchalovs­kij era un falso o diceva una madornale sciocchezz­a, di cui Konchalovs­kij e chi ne ha portato lo spettacolo al Festival non si sono accorti. Urge, caro Maurizio de Giovanni, l’intervento del tuo sagace ancorché (come tutti noi) malinconic­o commissari­o Ricciardi.

Alla vigilia del debutto più di una compagnia mi ha confessato candidamen­te (leggi cinicament­e) che non poteva fornirmi testi perché stavano tuttora mettendoli a punto

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Protagonis­ta Laetitia Casta, in primo piano sul palco di «Scènes de la vie conjugale»

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