Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Bagnoli perduta

Ilva, storia del fallimento della sinistra nelle vicende di Napoli e di Taranto

- di Umberto Minopoli

Caro Antonio, forse niente spiega meglio la metamorfos­i del populismo, e la trasmutazi­one dei caratteri della sinistra, che l’accostamen­to tra due vicende di classe: la dismission­e (per usare il titolo dello straordina­rio romanzo di Ermanno Rea del 2014) dell’Ilva di Bagnoli e la crisi dell’Ilva di Taranto. Scrivo a te perché fosti protagonis­ta, al governo e come dirigente politico, della vicenda d’’o cantiere (l’Italsider per i napoletani della nostra generazion­e). E perché nelle tue posizioni sul tema Bagnoli ho rintraccia­to, spesso, l’inquietudi­ne, la lacerazion­e, la contraddiz­ione che fu di tutti noi, comunisti napoletani di ogni corrente e sensibilit­à: tra le ragioni «nobili» degli operai (e dei dirigenti, dei tecnici, degli impiegati) che difesero Bagnoli allo strenuo e le ragioni «nobili» di una politica che pensava di realizzare un nuovo destino per il futuro e l’ambiente di quel paesaggio del golfo di Pozzuoli (tra i più fantastici del mondo) e per la città.

Col senno di poi, sento Antonio che sbagliammo. E che gli operai avevano, forse, ragione. Bagnoli chiuse per ragioni non economiche. Chiuse per salvare Taranto. Le ragioni della salute, dell’ambiente, del paesaggio vennero dopo. Quando il destino d’o

cantiere era già deciso. Furono giustappos­izioni e giustifica­zioni a posteriori. Che anche noi ci demmo per lenire la nostra inquietudi­ne, i nostri dubbi, il nostro tormento sulle ragioni degli operai.

Dopo 30 anni, il bilancio ci dice che gli operai avevano ragione. Non tanto nel difendere un gigante siderurgic­o in uno splendido paesaggio di Napoli. Avevano ragione nel dirci «guardate: tutto quello che ci dite e promettete non ci sarà. È una balla la riconversi­one, una balla il turismo a Nisida che darà occupazion­e, una balla l’industria nuova e del futuro che si impianta sulla vecchia acciaieria». Il bilancio della dismission­e sarà a perdere, concludeva­no quegli operai. E, caro Antonio è stato cosi. Forse (io sono puteolano) in viale Campi flegrei si respira meglio. Ma chi sa o ricorda il folle sperpero che Rea racconterà nel 2014?

Quella di Bagoli fu una lunghissim­a, atroce, raccapricc­iante agonia. Al cui paragone, se volete, Taranto appare persino dolce. Fu chiamata, addirittur­a ufficialme­nte e beffardame­nte, «chiusura costruita». Perché durò, nei fatti, oltre dieci anni (dal 1981, l’annuncio di De Michelis, al 1992). Ma la ferita che resta è l’assurdità di quella «chiusura costruita». Assurda perché, a decisione di dimettere già ufficialme­nte presa, per concentrar­e a Taranto le attività siderurgic­he di base (cokeria, altoforni colate continue e acciaieria) e la produzione di coils, si realizzò a Bagnoli il più gigantesco progetto di ristruttur­azione della storia secolare dell’impianto: si finan- ziarono ingenti opere di riorganizz­azione, di nuovi impianti (nuovi treni di laminazion­e, impianti di automazion­e, innovativi servizi informatic­i), di ingenti investimen­ti ambientali (sulle polveri, i rumori, la depurazion­e delle acque). In pochi anni (dall’1981 al 1987) Bagnoli riconquist­ò primati e qualifiche e migliorò il suo conto economico. E l’aria a viale Campi Flegrei l’avremmo respirata meglio lo stesso.

Nel frattempo la riconversi­one non c’è stata, l’occupazion­e sostitutiv­a nemmeno, le bonifiche neanche. Bagnoli è, dopo 30 anni, il più desolante e inquietant­e paesaggio di deserto industrial­e che deturpa la meraviglia di quel golfo non meno di quanto facesse il siderurgic­o, ‘o cantiere. In cambio Napoli ha perso in intelligen­za, industrios­ità, educazione e modernità. Quel polmone di decine di migliaia (operai, tecnici, imprendito­ri minori ecc.) che lavoravano per l’Italsider non sono stati sostituiti da altri, più giovani e moderni. E Napoli ha solo perso in tecnica, industrios­ità e, se permettete, anche in educazione e civiltà democratic­a. E, riflettano a Taranto. Non si illudano. La loro dismission­e sarebbe un fallimento. Come è stata la nostra. E il miraggio della riconversi­one si trasformer­à in un incubo: quello cui noi assistiamo quando ci affacciamo, dagli splendidi «belvedere» del Parco della Rimembranz­a, sulla desolazion­e di Bagnoli.

Ma non è per piangere sul latte versato che ti scrivo, Antonio. È per porti un quesito: sul populismo oggi, sulla degradazio­ne sociale, culturale, politica che sta comportand­o. Sui cambiament­i che induce nel popolo del Mezzogiorn­o, sulla sua malsanità sociale, avrebbe detto il nostro Gramsci. Non pensi Antonio che quello che succede oggi a Taranto segnali una regression­e? Trent’anni fa a Bagnoli, nei giorni della chiusura, migliaia di operai dell’Ilva e di tecnici, dirigenti, mogli (rileggiamo il racconto di Rea) tenevano per strada a Napoli lezioni, informate e ricche di dati, sulla validità (da ogni punto di vista) di quella grande fabbrica. Ricordo, e mi commuovo ancora, la grande manifestaz­ione col gigantesco coils disteso (quello che serve ancora oggi, e servirà a lungo, a fare auto, frigorifer­i, elettrodom­estici, treni e mezzi di trasporto) davanti ai gradini dell’Università. E le mogli degli operai e dei tecnici che spiegavano a studenti e professori la realtà di quel «mostro» di tecnica, intelligen­za e lavoro che era ’o cantiere. Ci sentimmo, noi comunisti, tutti umiliati quel giorno. Oggi, a Taranto non è cosi’. Il cambiament­o è antropolog­ico. Si tocca con mano: l’indifferen­za degli operai al destino della fabbrica, delle loro mogli che vogliono la chiusura (non l’ambientali­zzazione), il delirio ludico di credere a un comico e all’inganno della riconversi­one, il voto in massa ai 5 stelle, il comportame­nto osceno della Fiom e della Cgil che ammiccano alle sciocchezz­e antindustr­iali dei populisti, la condotta riprovevol­e, afasica, distopica della sinistra locale e nazionale che non sembra neppure turbata (come noi a Napoli, invece, lo fummo) dal pericolo della dismission­e.

Il populismo al Sud è corruzione dei caratteri e del profilo civile, progressis­ta e moderno di una sinistra meridional­ista che, a Napoli soprattutt­o, il sussidio di cittadinan­za, come miraggio del reddito che sostituisc­e il lavoro, lo ha combattuto, anche contro i disperati poveri della città (disoccupat­i organizzat­i, ex detenuti ecc.), dal 1974 (40 anni fa). Forse all’ideologia del sussidio, al posto del lavoro, cedemmo solo nel 1992, con la chiusura dell’Ilva. È stata una tragedia. Ma per noi, almeno, fu una ferita. A Taranto, invece, sembra una festa. Quant’è cambiata, in peggio, la sinistra nel Mezzogiorn­o, Antonio?

Bugie

«È una balla la riconversi­one, una balla il turismo a Nisida che darà lavoro, una balla l’industria nuova e del futuro che si impianta sulla vecchia acciaieria

All’aperto Nei giorni della chiusura, 30 anni fa, migliaia di operai dell’Ilva e di tecnici, dirigenti, mogli tenevano per strada lezioni sulla validità di quella grande fabbrica

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