Corriere del Mezzogiorno (Campania)
UN OBBLIGO AIUTARE CHI SOFFRE
Fa un certo effetto pensare che i porti del Mediterraneo, tra cui Napoli e Salerno, non debbono accogliere i profughi. I due porti campani, soprattutto Salerno, hanno contribuito fino a poco fa a far approdare navi della marina militare italiana e delle Ong sulle coste italiane cariche di donne, bambini, ragazzi sopravvissuti ai viaggi della speranza. Malgrado i problemi e le emergenze che si sono dovuti affrontare, è stata nel complesso un’esperienza largamente positiva. Nei porti, oltre chi era preposto all’accoglienza, si è riversata tanta gente con il desiderio di dare una mano. Insomma, si è colto un diffuso desiderio di voler fare del bene. Ulteriore prova è stato il consenso attorno alla proposta del sindaco de Magistris di accogliere nel porto di Napoli l’Aquarius, la nave che aveva con sé oltre 600 profughi. Questi comportamenti non sono dettati da scelte estemporanee. La definizione di Mediterraneo come «mare nostrum» va intesa come mare che affratella. Certo, è stato scenario di sanguinosi conflitti che hanno segnato la Storia, ma alla lunga sono prevalsi più gli intrecci che le fratture. Lo si coglie da una tipicità mediterranea, percepibile nei tratti fisici, nel modo di parlare, nella gestualità. Né è scaturita una cultura, frutto di contaminazioni e scambi, in larga parte condivisa. Cultura intrisa di cristianesimo, che nel Mediterraneo ha mosso i suoi primi passi fino a divenirne il cardine della sua irradiazione in altre aree del mondo.
Ma anche di altre religioni: Giorgio La Pira lo definiva il «grande lago di Tiberiade» perché accomuna la «triplice famiglia di Abramo».
Ma il Mediterraneo è stato una grande infrastruttura naturale, quando non esistevano ferrovie, aerei, automobili. Napoli, tra le più grandi metropoli europee dell’età moderna, ne ha tratto tanti vantaggi, potendo sfamare la sua popolazione in perenne eccesso grazie all’apporto di cibo proveniente dalle varie sponde del Mediterraneo. A ciò si riferiva Fernand Braudel quando definiva il Mediterraneo un crocevia di frontiere, in cui vi sono tanti beni e una larga e inestricabile circolazione di uomini.
Un’interpretazione secondo cui frontiere e libera circolazione sono tutt’altro che inconciliabili. Oggi, invece, lo sono diventati. È il brutto segno dei tempi in cui viviamo. Il messaggio, spesso gridato, è che non bisogna accogliere. Addirittura si parla dei porti italiani come approdi insicuri. Il Mediterraneo non è unione ma divisione. Sono divisioni penose e amare: si confrontano, senza dialogare, le coste del mondo ricco con quelle del mondo povero.
Si avverte disagio: a manifestarlo senza esitazioni sono coloro che trascorrono gran parte del loro tempo in mezzo al mare. Sarebbe come imporre il divieto di soccorrere persone che per strada vediamo morenti. Come si fa a voltare la faccia dall’altra parte? Lo si può fare per scelta individuale — a mio avviso assai deprecabile — ma non lo si può ordinare per legge.
Allora viene da pensare che il mare rende più umani rispetto a ciniche logiche elaborate in luoghi lontani dalle emergenze umanitarie del Mediterraneo. E’ una umanità cui è impossibile sottrarsi per chi ha confidenza con il mare. Lo ha rilevato l’ammiraglio Giovanni Pettorino, comandante generale delle Capitanerie di Porto, di origini ischitane: «Il nostro mestiere: salvare vite umane, di qualunque colore e nazionalità. E’ la legge del mare, la legge della solidarietà: la guardia costiera lo ha fatto e lo farà ancora».
Dalle cronache dei giorni scorsi abbiamo letto di una bimba di quattro anni, smagrita e riarsa dal sole, che appena sbarcata ha chiesto ai medici di curare subito la madre, completamente disidratata e in gravi condizioni fisiche. Il Mediterraneo, per la civiltà di cui è espressione, non può essere luogo di queste tragedie. Chi vive a contatto con il mare sarà sempre disponibile a prodigarsi nell’accogliere l’umanità dolente, motivato delle gravi disuguaglianze che attraversano il mondo, di cui le acque del Mediterraneo ne sono un chiaro riflesso.