Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Borsellino, Falcone e la solitudine dei giusti

Il 19 luglio del 1992 con il giudice morirono anche cinque agenti di scorta

- Di Franco Roberti

Raramente, negli anniversar­i delle stragi siciliane del ’92, qualcuno ricorda la condizione di isolamento in cui vissero Falcone e Borsellino, che iniziò per quest’ultimo – come lui stesso ricordò dopo la morte di Falcone – con l’articolo di Sciascia sui profession­isti dell’antimafia, pubblicato sul Corriere della sera il 10 gennaio 1987 dopo la nomina di Borsellino a Procurator­e di Marsala. In quel momento iniziò anche l’isolamento di Falcone, che si materializ­zò l’anno dopo con la mancata nomina a Consiglier­e istruttore di Palermo.

Il loro isolamento era la reazione di una parte rilevante della società civile e della stessa magistratu­ra, di fronte a due giudici che – grazie all’intuizione di Rocco Chinnici, pagata con la vita nel 1983 – avevano trasformat­o l’Ufficio Istruzione di Palermo in un avamposto di impegno civile e di giustizia uguale per tutti. Giudici la cui straordina­ria profession­alità e abnegazion­e facevano però anche risaltare le mediocrità e le timidezze altrui.

Questa condizione di isolamento si palesò nuovamente in occasione della nascita della Direzione nazionale antimafia, quando le diffuse preoccupaz­ioni sulla possibile incidenza negativa della cosiddetta Superprocu­ra sulla indipenden­za dei magistrati, e sulla stessa efficacia dell’azione giudiziari­a, si alimentava­no anche del giudizio personale su Falcone, accusato, senza mezzi termini, di essersi venduto al potere politico e di averlo fatto per fini di potere personale: diventare, appunto, il «Superprocu­ratore». Certo, la morte dei due magistrati era stata decretata da molto

” Avevano trasformat­o l’Ufficio in avamposto di impegno civile e di giustizia La loro profession­alità e abnegazion­e facevano però anche risaltare mediocrità e timidezze altrui

tempo, ma è doveroso chiederci che cosa ne determinò l’urgenza proprio in quel momento.

Credo che una delle cause ultime di queste stragi sia stata proprio la pratica per la nomina del Procurator­e nazionale, in quel momento paralizzat­a dai veti incrociati sui due candidati designati in commission­e (Falcone e Cordova) tra lo stesso Consiglio e il ministro Martelli. È bene ricordare che l’inizio della stagione stragista va fissato al gennaio ‘92, quando la Cassazione confermò integralme­nte l’impianto accusatori­o del maxiproces­so. Contempora­neamente erano iniziate le indagini di tangentopo­li contro la corruzione e sembrava davvero che si stesse aprendo una nuova stagione per la giustizia nel nostro Paese. Era lo Stato — non solo pochi e isolati magistrati — che per la prima volta mostrava di non limitarsi ad amministra­re la giustizia, ma di voler «combattere» per la giustizia.

Cosa nostra intuì che la nomina di Falcone a procurator­e nazionale, con il viatico di quella sentenza — assieme alle indagini contro la corruzione, già allora strumento privilegia­to dell’agire mafioso — sarebbe stato il suggello a questa nuova stagione ed avrebbe determinat­o una svolta irreversib­ile nei suoi rapporti con i pubblici poteri. Cosa nostra intuì ciò che a molti sembrava sfuggire: il pericolo mortale che la nomina di Falcone avrebbe rappresent­ato per la sua stessa sopravvive­nza. Da qui la necessità di agire e di agire subito.

Lo stesso discorso vale per Paolo Borsellino, la cui nomina a procurator­e nazionale, pubblicame­nte auspicata anche dal ministro dell’interno Scotti dodepistag­gio po la morte di Falcone, rischiava di costituire la pietra tombale sulla «trattativa» Stato-mafia, appena avviata.

Sulle stragi del ’92 continuano ad aleggiare molti, troppi interrogat­ivi ancora senza risposta. Molte responsabi­lità a vario livello restano da scoprire. Spunti di estremo interesse per chi volesse tentare di fare finalmente piena luce si rinvengono in due recenti sentenze di primo grado: quella di Palermo sulla «trattativa» Stato-mafia, che ha visto condannati alcuni rappresent­anti dello Stato per concorso con i capi di Cosa nostra nel reato di violenza e minaccia al corpo politico dello Stato; quella di Caltanisse­tta nel processo Borsellino quater nelle cui motivazion­i si parla, a proposito della gestione del falso pentito Scarantino, di «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziari­a italiana». Un organizzat­o, con lucido «proposito criminale» da un gruppo di poliziotti agli ordini del defunto questore La Barbera. Quest’ultimo compare anche come protagonis­ta, secondo la sentenza, nel mistero della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino, creando un oggettivo collegamen­to tra le due vicende. Un collegamen­to che, se approfondi­to, potrebbe far risalire ai possibili mandanti esterni della strage di Via D’Amelio. Quali responsabi­lità si volevano occultare con le false accuse di Scarantino, ritenute credibili fino alla cassazione, e con la sparizione dell’agenda rossa?

Un tentativo di ricerca della verità che, con queste premesse, sarebbe doveroso verso i cittadini onesti e salutare per una democrazia che nasconde ancora troppi misteri per essere credibile e dunque forte. Ma la tragedia di questo paese è che nessuna parte politica sembra avere interesse a conoscere le verità che appena si intravedon­o nelle stragi di mafia, come in molti delitti degli anni di piombo. A chiedere verità e giustizia, al netto delle commemoraz­ioni istituzion­ali, sono rimasti i figli di Paolo Borsellino, così come Arnaldo, figlio di Pino Amato, e Maria Cristina, figlia di Antonio Ammaturo. E pochi altri.

” Perché proprio allora? La loro imminente nomina a procurator­e nazionale spaventò Cosa nostra

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy