Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Nessuno dimentichi Salvatore
Caduto da un lucernaio che puliva per pochi soldi e per rimanere onesto
Sembra di sentirlo quel pianto silenzioso. Quel segno buio di un dolore che mai niente e nessuno potrà consolare. Quella solitudine di una casa fino a ieri abitata dalle voci di una famiglia impegnata a sopravvivere.
A resistere alle difficoltà di giornate avare, fatte di obblighi scolastici violati, di lavoro negato, di diritti che diventano mance. Quello sguardo di madre che si perde nel vuoto assalita dai ricordi. Dai sogni di futuro che il suo ragazzo tesseva felice con la fidanzatina, con gli amici del cuore.
Portava il caffè e si offriva per piccole manutenzioni, lavoretti precari come quello che quella maledetta mattina qualcuno gli ha offerto. Pulire un lucernaio. Nessuna protezione. Nessuna sicurezza. Solo il desiderio di aiutare la famiglia. Dieci metri. Il tempo di capire e, forse, di sentire lo strazio del dolore che rompe il corpo come fosse porcellana, senza intaccarne la bellezza. «Sembrava addormentato». Un dolore che, come dice Melina, l’amica d’infanzia della madre, Melina che è arrivata in ospedale per prima con Gaetano, il più grande dei suoi figli, «ha coperto Forcella di un velo di buio. Ha inondato il quartiere di quel silenzio che segna lo smarrirsi di qualsiasi speranza. Di qualsiasi conforto». Ma Salvatore, la sua vita piena di progetti, la sua ammirazione per il padre che da giovane era arrivato fino alla serie B, la sua disponibilità a qualsiasi lavoro «onesto» ( come può essere onesto un lavoro che si prende la vita?) tragicamente smentisce quel terribile luogo comune che legge i ragazzi di Napoli, gli adolescenti e i giovani dei quartieri governati dalla criminalità, apprendisti di arroganza e violenza. Eredi e diffusori feroci di regole che si nutrono di sopraffazione. Cinici esecutori anche di spietati omicidi.
La morte di Salvatore è l’epilogo atroce di una vita che ha resistito alle mille tentazioni. Resistito per assecondare e nutrire la banalità del bene. Il «bene» senza retorica. Il bene che, a differenza di quanto vuole una dialettica narcotica che imprigiona i due poli nelle maglie della reciprocità, non è il contrario del male, ma è un’autonoma possibilità. Una strada impervia. Fatta di serate passate a discutere con gli amici sotto casa o a carambolare con i motorini, di un futuro che sfugge tanto è lontano e, a tratti, impossibile. Chissà quanta consapevolezza c’era in quel testardo insistere su quelle scelte che Salvatore faceva per non considerare un destino il male. In tutte le sue anche seducenti sfumature? Chi spaccia o scippa o esegue ordini malavitosi, guadagna i trentacinque euro promessi a Salvatore in cambio della sua vita in pochi minuti. Impunemente. Salvatore e, con lui tanti altri, percorreva quella strada impervia quasi da solo con le armi di un’etica attaccata tutti i giorni. Derisa dalla realtà. Circondata spesso dal deserto. Dalla pratica della rimozione anche occulta. Da una politica senza passione che non sperimenta sintonie anche inedite con quelli che vivono, mentre sembra che nessuno sappia ascoltarne le parole i desideri, i bisogni. Da una politica che non sente questa morte come accusa, tanto da non pensare a proclamare il lutto cittadino. La solitudine di Salvatore somiglia a tante solitudini che tentano di prendere la parola sulla scena pubblica, di costruire un’efficace azione collettiva. L’esempio del gruppo «donne con la folla nel cuore» che cerca, a Forcella, nel quartiere di Salvatore, inutilmente una sede per dare riparo e proteggere dalla dimenticanza la sua straordinaria esperienza è, forse, il più simbolico di una solitudine gremita di colpevoli.
Certo la cultura non avrebbe fermato il drammatico, atroce volo di Salvatore. Non lo avrebbero fermato né una mostra, né un concerto, né, meno che mai, il cinismo di un dibattito pubblico che serve al narcisismo di chi lo anima e poco, molto poco, alle ragazze e ai ragazzi. Avrebbero certamente potuto impedirlo una cultura del lavoro buono e giusto come un diritto, come priorità della politica istituzionale, come obiettivo assoluto per il sindacato.
Salvatore non va archiviato. Non gli va fatto l’affronto di assumere la fine della sua vita come destino o malasorte. Quel volo atroce dovremmo riuscire a trasformarlo in una riflessione corale In un giudizio morale. In una ferita inflitta alla nostra coscienza civile. In una storia senza lieto fine da raccontare come una storia che ci appartiene e che vorremmo mai più si ripetesse non perché siamo sensibili e buoni ma perché è la storia della brutta realtà nella quale viviamo.
«Salvatore, il mio amico Salvatore più grande di me di pochi anni, che giocava a pallone, cercava ogni giorno la fatica e trovava la forza» dice Gaetano Pantaleo tormentandosi le mani e cercando le parole che, forse, vorrebbe fossero capaci di raccontare tutti i particolari di questa tragedia, tutti i suoi significati, i presagi che l’avevano annunciata, tutti i ricordi di tante cose fatte insieme. «Diceva di sì anche quando era stanco con il cuore pesante per tutte le porte che gli si erano chiuse davanti. E un sì lo ha ucciso. Ha spento il suo sorriso. La forza che chissà dove trovava per non fare cose sbagliate. Prendere una brutta via. È una forza che ci passiamo l’un con l’altro come se fosse una febbre. Ci diamo coraggio anche se sappiamo che è difficile. Anzi, difficilissimo. Adesso abbiamo un’altra ragione per resistere: lo dobbiamo fare per Salvatore. Anche per lui».