Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Nessuno dimentichi Salvatore

Caduto da un lucernaio che puliva per pochi soldi e per rimanere onesto

- Di Luisa Cavaliere

Sembra di sentirlo quel pianto silenzioso. Quel segno buio di un dolore che mai niente e nessuno potrà consolare. Quella solitudine di una casa fino a ieri abitata dalle voci di una famiglia impegnata a sopravvive­re.

A resistere alle difficoltà di giornate avare, fatte di obblighi scolastici violati, di lavoro negato, di diritti che diventano mance. Quello sguardo di madre che si perde nel vuoto assalita dai ricordi. Dai sogni di futuro che il suo ragazzo tesseva felice con la fidanzatin­a, con gli amici del cuore.

Portava il caffè e si offriva per piccole manutenzio­ni, lavoretti precari come quello che quella maledetta mattina qualcuno gli ha offerto. Pulire un lucernaio. Nessuna protezione. Nessuna sicurezza. Solo il desiderio di aiutare la famiglia. Dieci metri. Il tempo di capire e, forse, di sentire lo strazio del dolore che rompe il corpo come fosse porcellana, senza intaccarne la bellezza. «Sembrava addormenta­to». Un dolore che, come dice Melina, l’amica d’infanzia della madre, Melina che è arrivata in ospedale per prima con Gaetano, il più grande dei suoi figli, «ha coperto Forcella di un velo di buio. Ha inondato il quartiere di quel silenzio che segna lo smarrirsi di qualsiasi speranza. Di qualsiasi conforto». Ma Salvatore, la sua vita piena di progetti, la sua ammirazion­e per il padre che da giovane era arrivato fino alla serie B, la sua disponibil­ità a qualsiasi lavoro «onesto» ( come può essere onesto un lavoro che si prende la vita?) tragicamen­te smentisce quel terribile luogo comune che legge i ragazzi di Napoli, gli adolescent­i e i giovani dei quartieri governati dalla criminalit­à, apprendist­i di arroganza e violenza. Eredi e diffusori feroci di regole che si nutrono di sopraffazi­one. Cinici esecutori anche di spietati omicidi.

La morte di Salvatore è l’epilogo atroce di una vita che ha resistito alle mille tentazioni. Resistito per assecondar­e e nutrire la banalità del bene. Il «bene» senza retorica. Il bene che, a differenza di quanto vuole una dialettica narcotica che imprigiona i due poli nelle maglie della reciprocit­à, non è il contrario del male, ma è un’autonoma possibilit­à. Una strada impervia. Fatta di serate passate a discutere con gli amici sotto casa o a carambolar­e con i motorini, di un futuro che sfugge tanto è lontano e, a tratti, impossibil­e. Chissà quanta consapevol­ezza c’era in quel testardo insistere su quelle scelte che Salvatore faceva per non considerar­e un destino il male. In tutte le sue anche seducenti sfumature? Chi spaccia o scippa o esegue ordini malavitosi, guadagna i trentacinq­ue euro promessi a Salvatore in cambio della sua vita in pochi minuti. Impunement­e. Salvatore e, con lui tanti altri, percorreva quella strada impervia quasi da solo con le armi di un’etica attaccata tutti i giorni. Derisa dalla realtà. Circondata spesso dal deserto. Dalla pratica della rimozione anche occulta. Da una politica senza passione che non sperimenta sintonie anche inedite con quelli che vivono, mentre sembra che nessuno sappia ascoltarne le parole i desideri, i bisogni. Da una politica che non sente questa morte come accusa, tanto da non pensare a proclamare il lutto cittadino. La solitudine di Salvatore somiglia a tante solitudini che tentano di prendere la parola sulla scena pubblica, di costruire un’efficace azione collettiva. L’esempio del gruppo «donne con la folla nel cuore» che cerca, a Forcella, nel quartiere di Salvatore, inutilment­e una sede per dare riparo e proteggere dalla dimentican­za la sua straordina­ria esperienza è, forse, il più simbolico di una solitudine gremita di colpevoli.

Certo la cultura non avrebbe fermato il drammatico, atroce volo di Salvatore. Non lo avrebbero fermato né una mostra, né un concerto, né, meno che mai, il cinismo di un dibattito pubblico che serve al narcisismo di chi lo anima e poco, molto poco, alle ragazze e ai ragazzi. Avrebbero certamente potuto impedirlo una cultura del lavoro buono e giusto come un diritto, come priorità della politica istituzion­ale, come obiettivo assoluto per il sindacato.

Salvatore non va archiviato. Non gli va fatto l’affronto di assumere la fine della sua vita come destino o malasorte. Quel volo atroce dovremmo riuscire a trasformar­lo in una riflession­e corale In un giudizio morale. In una ferita inflitta alla nostra coscienza civile. In una storia senza lieto fine da raccontare come una storia che ci appartiene e che vorremmo mai più si ripetesse non perché siamo sensibili e buoni ma perché è la storia della brutta realtà nella quale viviamo.

«Salvatore, il mio amico Salvatore più grande di me di pochi anni, che giocava a pallone, cercava ogni giorno la fatica e trovava la forza» dice Gaetano Pantaleo tormentand­osi le mani e cercando le parole che, forse, vorrebbe fossero capaci di raccontare tutti i particolar­i di questa tragedia, tutti i suoi significat­i, i presagi che l’avevano annunciata, tutti i ricordi di tante cose fatte insieme. «Diceva di sì anche quando era stanco con il cuore pesante per tutte le porte che gli si erano chiuse davanti. E un sì lo ha ucciso. Ha spento il suo sorriso. La forza che chissà dove trovava per non fare cose sbagliate. Prendere una brutta via. È una forza che ci passiamo l’un con l’altro come se fosse una febbre. Ci diamo coraggio anche se sappiamo che è difficile. Anzi, difficilis­simo. Adesso abbiamo un’altra ragione per resistere: lo dobbiamo fare per Salvatore. Anche per lui».

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Commozione­I funerali di Salvatore Galiano morto cadendo da un lucernaio

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