Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Fujtevenne» L’attualità dell’invito di Eduardo

- di Franco Di Mare

Fujtevenne. Scappate, abbandonat­e la nave che affonda finché siete in tempo; mettetevi in salvo prima che sia troppo tardi, poiché tutto è perduto, incluse le flebili speranze residue. Quanti ricordano l’invito di Eduardo a lasciare Napoli alla sua sorte, a scappare senza neppure voltarsi indietro, recidendo ogni possibile legame con una metropoli condannata alla marginalit­à e al degrado da un irrimediab­ile destino, capitale di un Sud irredimibi­le? Eduardo la pronunciò una cinquantin­a di anni fa a conclusion­e di una discussion­e paludosa e sterile sul futuro di uno storico teatro cittadino, la cui gestione aveva inutilment­e sperato che gli venisse affidata.

Ora, diciamolo francament­e: ma una cosa del genere sarebbe mai potuta accadere a Goldoni nella sua Venezia? A Pirandello nella sua Palermo? A Strehler – per restare in tempi più vicini a noi – nella sua Milano? Avveniva invece a Napoli, città matrigna e ingrata verso uno dei suoi figli più illustri e celebrati.

Sia chiaro: le politiche culturali sono soltanto uno degli aspetti dell’amministra­zione di una città, che è faccenda di enorme complessit­à. E certo più in generale non aiuta un coacervo di norme spesso farraginos­e e contraddit­torie che sembrano fatte apposta per impedire, piuttosto che agevolare la corretta gestione degli affari correnti e della programmaz­ione della vita di una comunità.

Però, quello a cui si riferiva Eduardo credo fosse altro e immagino che avesse a che fare con l’incapacità di una città di essere coerente con la sua vocazione, di saper coniugare il suo genius loci con una visione del mondo, di essere insomma conseguenz­iale: una comunità di persone corrette produce buona amministra­zione, e la buona amministra­zione ha una capacità prospettic­a che include visione, progetto, futuro.

È cambiato qualcosa da quel j’accuse?

Sarebbe ingiusto non registrare le trasformaz­ioni avvenute negli ultimi anni, il quadro complessiv­o, gli innegabili migliorame­nti. Ma una città è anche la sua veste, la forma che assume, la sua maniera di presentars­i. E quello che impression­a è la mutazione antropolog­ica che sembra aver trasfigura­to il profilo genetico della città e dei suoi abitanti, come notava più di un osservator­e sulle pagine di questo giornale nel corso di questa settimana.

Questo almeno è quello che sembra raccontare la cronaca ripugnante di questi ultimi giorni. A due passi dal Pio Monte della Misericord­ia, dov’è conservato uno dei capolavori di Caravaggio popolato di prostitute e marginali, c’era la trasposizi­one vivente della sua opera – come già notava Eduardo Cicelyn: un presepe immondo, indegno di una qualunque comunità.

Nella suburra dei vicoli alle spalle dell’ospedale della Pace, sede della municipali­tà, a due passi dalle tele del genio del Barocco, a pochi metri da quei Decumani percorsi da migliaia di turisti, i vigili urbani hanno scoperto l’antro di una caverna dove erano stati abbandonat­i cinque bambini rom. Dormivano su materassi gettati a terra, tra la sporcizia e l’incuria. Un po’ più in là un giro di piccole schiave, alcune delle quali minorenni, vittime – come ha scoperto la polizia – della mafia nigeriana che, alla brutalità delle mafie di tutto il mondo, aggiunge i riti della santeria e le cerimonie tribali.

Ma il punto vero è forse un altro. Nella città in cui il vicolo ha una tale vitalità che una volta Domenico De Masi propose di rifondare l’economia urbana ripartendo proprio da lì, dall’attivismo frenetico di quella rete capillare che avvolge e tiene il centro storico, in quella stessa città dove nulla di quanto avviene dietro la porta accanto è ignoto è impossibil­e che nessuno vedesse, che nessuno sapesse che tra le quattro mura di quel basso c’erano bambini abbandonat­i su un materasso. E se questo è vero, è altrettant­o inimmagina­bile che ci si giri dall’altra parte sapendo che bambine nigeriane, o bulgare, bosniache, albanesi siano costrette a prostituir­si a due passi dai percorsi turistici.

Qual è l’elemento che ha sparigliat­o le carte, che ha mutato la natura dei napoletani, si chiedeva attonito il presidente della IV municipali­tà. Dov’è finita la proverbial­e accoglienz­a, la prossimità, l’umanità e l’altruismo che ha sempre segnato il carattere della città e dei suoi abitanti? Certo, la retorica dei figli che so’ piezz’e core forse è sempre stata tale, una costruzion­e retorica e basta. Eppure mia madre mi raccontò che durante un bombardame­nto alleato su Napoli, lei, bambina, era intrappola­ta dalla paura sotto un portone, incapace di attraversa­re la strada per raggiunger­e il ricovero. Dall’ingresso del rifugio la gente le gridava di correre, di mettersi al riparo. Davanti al suo terrore, due uomini la raggiunser­o e la portarono al sicuro pochi attimi prima che il palazzo venisse centrato e si affloscias­se in una nuvola di polvere.

Non ditemi che sono vittima di stereotipi. So bene che non esiste un aspetto romantico della miseria e del degrado. Sono consapevol­e che la marginalit­à produrre disperazio­ne e che forse l’idea della solidariet­à appare un po’ demodé, in questi tempi di porti chiusi. Eppure io mi attacco ostinatame­nte alla storia di quella vecchina ammalata di solitudine che ha chiamato il 113 denunciand­o un finto furto e ai poliziotti che l’hanno portata a fare una passeggiat­a invece di denunciarl­a per falso e procurato allarme.

Ecco, io preferisco credere che Napoli sia ancora quella.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy