Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Fujtevenne» L’attualità dell’invito di Eduardo
Fujtevenne. Scappate, abbandonate la nave che affonda finché siete in tempo; mettetevi in salvo prima che sia troppo tardi, poiché tutto è perduto, incluse le flebili speranze residue. Quanti ricordano l’invito di Eduardo a lasciare Napoli alla sua sorte, a scappare senza neppure voltarsi indietro, recidendo ogni possibile legame con una metropoli condannata alla marginalità e al degrado da un irrimediabile destino, capitale di un Sud irredimibile? Eduardo la pronunciò una cinquantina di anni fa a conclusione di una discussione paludosa e sterile sul futuro di uno storico teatro cittadino, la cui gestione aveva inutilmente sperato che gli venisse affidata.
Ora, diciamolo francamente: ma una cosa del genere sarebbe mai potuta accadere a Goldoni nella sua Venezia? A Pirandello nella sua Palermo? A Strehler – per restare in tempi più vicini a noi – nella sua Milano? Avveniva invece a Napoli, città matrigna e ingrata verso uno dei suoi figli più illustri e celebrati.
Sia chiaro: le politiche culturali sono soltanto uno degli aspetti dell’amministrazione di una città, che è faccenda di enorme complessità. E certo più in generale non aiuta un coacervo di norme spesso farraginose e contraddittorie che sembrano fatte apposta per impedire, piuttosto che agevolare la corretta gestione degli affari correnti e della programmazione della vita di una comunità.
Però, quello a cui si riferiva Eduardo credo fosse altro e immagino che avesse a che fare con l’incapacità di una città di essere coerente con la sua vocazione, di saper coniugare il suo genius loci con una visione del mondo, di essere insomma conseguenziale: una comunità di persone corrette produce buona amministrazione, e la buona amministrazione ha una capacità prospettica che include visione, progetto, futuro.
È cambiato qualcosa da quel j’accuse?
Sarebbe ingiusto non registrare le trasformazioni avvenute negli ultimi anni, il quadro complessivo, gli innegabili miglioramenti. Ma una città è anche la sua veste, la forma che assume, la sua maniera di presentarsi. E quello che impressiona è la mutazione antropologica che sembra aver trasfigurato il profilo genetico della città e dei suoi abitanti, come notava più di un osservatore sulle pagine di questo giornale nel corso di questa settimana.
Questo almeno è quello che sembra raccontare la cronaca ripugnante di questi ultimi giorni. A due passi dal Pio Monte della Misericordia, dov’è conservato uno dei capolavori di Caravaggio popolato di prostitute e marginali, c’era la trasposizione vivente della sua opera – come già notava Eduardo Cicelyn: un presepe immondo, indegno di una qualunque comunità.
Nella suburra dei vicoli alle spalle dell’ospedale della Pace, sede della municipalità, a due passi dalle tele del genio del Barocco, a pochi metri da quei Decumani percorsi da migliaia di turisti, i vigili urbani hanno scoperto l’antro di una caverna dove erano stati abbandonati cinque bambini rom. Dormivano su materassi gettati a terra, tra la sporcizia e l’incuria. Un po’ più in là un giro di piccole schiave, alcune delle quali minorenni, vittime – come ha scoperto la polizia – della mafia nigeriana che, alla brutalità delle mafie di tutto il mondo, aggiunge i riti della santeria e le cerimonie tribali.
Ma il punto vero è forse un altro. Nella città in cui il vicolo ha una tale vitalità che una volta Domenico De Masi propose di rifondare l’economia urbana ripartendo proprio da lì, dall’attivismo frenetico di quella rete capillare che avvolge e tiene il centro storico, in quella stessa città dove nulla di quanto avviene dietro la porta accanto è ignoto è impossibile che nessuno vedesse, che nessuno sapesse che tra le quattro mura di quel basso c’erano bambini abbandonati su un materasso. E se questo è vero, è altrettanto inimmaginabile che ci si giri dall’altra parte sapendo che bambine nigeriane, o bulgare, bosniache, albanesi siano costrette a prostituirsi a due passi dai percorsi turistici.
Qual è l’elemento che ha sparigliato le carte, che ha mutato la natura dei napoletani, si chiedeva attonito il presidente della IV municipalità. Dov’è finita la proverbiale accoglienza, la prossimità, l’umanità e l’altruismo che ha sempre segnato il carattere della città e dei suoi abitanti? Certo, la retorica dei figli che so’ piezz’e core forse è sempre stata tale, una costruzione retorica e basta. Eppure mia madre mi raccontò che durante un bombardamento alleato su Napoli, lei, bambina, era intrappolata dalla paura sotto un portone, incapace di attraversare la strada per raggiungere il ricovero. Dall’ingresso del rifugio la gente le gridava di correre, di mettersi al riparo. Davanti al suo terrore, due uomini la raggiunsero e la portarono al sicuro pochi attimi prima che il palazzo venisse centrato e si afflosciasse in una nuvola di polvere.
Non ditemi che sono vittima di stereotipi. So bene che non esiste un aspetto romantico della miseria e del degrado. Sono consapevole che la marginalità produrre disperazione e che forse l’idea della solidarietà appare un po’ demodé, in questi tempi di porti chiusi. Eppure io mi attacco ostinatamente alla storia di quella vecchina ammalata di solitudine che ha chiamato il 113 denunciando un finto furto e ai poliziotti che l’hanno portata a fare una passeggiata invece di denunciarla per falso e procurato allarme.
Ecco, io preferisco credere che Napoli sia ancora quella.