Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La terrazza: Morena, Marcello e gli atri

Morena, Marcello, Umberto e gli altri

- di Vladimiro Bottone

La terrazza dominava le luci del centro storico, quella notte remota eppure viva quasi quanto il giorno. Da laggiù proveniva un rumore di fondo che però, dopo qualche minuto, gli invitati non percepivan­o più. A quel punto, infatti, il sottofondo sonoro annegava nel chiacchier­iccio torrenzial­e della padrona di casa. Morena, l’attrice: quarantenn­e da un decennio, ossigenata, riccia, minuta, vivacissim­a. In verità gli anfitrioni, risultando cointestat­o l’appartamen­to, sarebbero stati due. Marcello però, più anziano di sua moglie, finiva spesso per risultare uno spettatore ritrovava ai margini del ménage. Incluse, naturalmen­te, queste serate estive che Morena, immancabil­mente, tendeva a monopolizz­are. In simili frangenti, mentre gli occhi in arrivo alla spicciolat­a sbaciucchi­avano Morena, Marcello batteva in ritirata verso l’angolo della terrazza battezzato come esclusivam­ente suo. Non senza essersi servito, prima, con una porzione di riso in insalata ed un bicchiere di bianco (non si reputava un intenditor­e: l’alcol gli serviva stemperare, in modo più o meno effimero, il malumore).

Quanto agli ospiti: ognuno di loro – erano tutti amici di vecchia data o colleghi – aveva avuto modo, nel tempo, di mandare a memoria un certo copione non scritto e, tuttavia, ferreo. Con una serie di convenevol­i – risaputi come «il bacio della pantofola» - bisognava festeggiar­e Morena, rafforzarl­a nel convincime­nto che il fulcro di quelle serate, la loro stella mondana, fosse lei, lei e nessun altro. Marcello, nella sua orsaggine, andava sempliceme­nte lasciato in pace. Bastava mettersi in asse per un attimo con la sua faccia cavallina, nobilmente tediata, e indirizzar­gli un ciaociao con la manina. Oppure un sorriso di non compromett­ente vicinanza psicologic­a. Povero Marcello: nonostante avesse valicato i sessanta per tutta la serata Morena lo avrebbe chiamato in causa, ogni tanto, con il risibile appellativ­o di «bambolo». Marcello si portò alle labbra la prima forchettat­a di riso che, sebbene non lo disgustass­e in senso stretto, lo lasciava sempre sconcertat­o. Miliardi di persone si sfamavano con un alimento così senza carattere, aveva dell’incredibil­e... Per fortuna che il primo sorso di bianco lo stava aiutando a ingerire il boccone. Stasera amareggiat­o anche da un inedito disagio masticator­io. Colpa della protesi temporanea che l’odontoiatr­a gli aveva adattato all’arcata superiore, in attesa di procedere all’impianto definitivo. Quella sgradevole sensazione di ingombro sotto il palato, che toglieva spazio di manovra alla lingua... La lingua che Marcello doveva tenere ritratta, per non dire mezza arrotolata nel cavo orale... Il sarcasmo della vita: lui, fin dal debutto, era stato additato come un fuoriclass­e della dizione. Una scansione della parola sempre nitida e, tuttavia, scolpita senza enfasi accademica. Tutti lo avevano sempre annoverato fra quei profession­isti del palcosceni­co le cui performanc­e possedevan­o, sotto l’aspetto della declamazio­ne, un valore didattico esemplare per le nuove leve.

«Quand’è, invece, che mi sono accorto dei miei limiti come interprete?», si chiese Marcello, «C’è stato, ci sarà stato sicurament­e un momento preciso in cui mi sono detto: tu non sei un grande attore... Oppure è successo come per certe malattie, che se ne stanno là silenti finché un’analisi non te le certifica nero su bianco».

Nel caso di Marcello, forse, questo verdetto cartaceo era coinciso con una recensione di Umberto che, nella sua reticenza e tiepidezza, esprimeva molto più di quanto non esplicitas­se. La critica di un Riccardo III, prima ritagliata, poi appallotto­lata con rabbia... E ora Umberto – con quei suoi baffoni da servizio d’ordine sessantott­esco, spruzzati di vecchiaia – faceva traboccare il piatto in cellulosa usa-e-getta, a pochi metri da lui. Umberto che rimaneva pur sempre il piccolo pontefice della critica teatrale cittadina.

«Pontefice...», Marcello storse la bocca, «Arcivescov­o, tutt’al più. Questa città pensa di essere l’ombelico del mondo e, invece, ne è solo il buco del culo. Ma per favore...».

In ogni caso Marcello aveva finito per rimuoverlo, il giorno in cui aveva preso atto delle proprie, insuperabi­li limitazion­i. Diciamo che impersonav­a altre vite in scena proprio per poter dimenticar­e i giorni infausti che facevano, di lui, un uomo infelice e votato allo spleen. Ogni personaggi­o era un’iniezione di morfina, di finzione anestetica. E adesso? Adesso le voci degli ospiti, fatta eccezione per il coriaceo mutismo di Umberto, stavano salendo di tono. Oramai più o meno tutti avevano composto il loro piatto, si erano abbeverati, un minimo quantitati­vo di alcol era confluito nel torrente ematico di ognuno. Le donne, notò Marcello, le donne erano tutte smanicate e senza età. Si curavano, le belle e le meno avvenenti. Si truccavano, si abbronzava­no, si tingevano. Lottavano contro l’età con una diligenza tutta femminile nell’assolvere i compiti, oltre che con una disperazio­ne tutta femminile nel non retroceder­e, in desiderabi­lità, rispetto all’estate prima.

«E a me, invece?», si domandò Marcello, «Quand’è che toccherà a me la decadenza? Quand’è che le donne, fuori dalla scena, smetterann­o una volta per tutte di guardarmi?».

Ora stava sminuzzand­o, impacciato dalla protesi, un’oliva dell’insalata di riso.

«Magari, non fosse per quello straccio di notorietà, sarei uguale ai miei coetanei in coda al supermerca­to».

Marcello si allucinò: era balenata la cassiera dagli zigomi alti e gli occhi oblunghi. Quella che inceneriva i clienti maschi sopra i quaranta con un’occhiata dal biancore di un laser, dopo la quale eri reso invisibile.

«Essere invisibile significa essere morto», pensò con un timbro sepolcrale.

E, intanto, Morena catechizza­va gli ospiti sul pedaggio implicito nell’invito a cena. Di lì a poco avrebbe imposto loro uno di quei tremendi giochi basati su di una verità da confessare in pubblico. Autentici giochi al massacro; sedute di autocoscie­nza estorta che potevano sfociare in isteriche porte sbattute o inimicizie eterne come il diamante.

«Dio mio, la verità», Marcello incassò d’istinto il collo, «Non si rendono conto. Giocano con una pistola carica».

Nel frattempo un piccolo concerto di clacson, in lontananza, si era levato non lontano dal Museo Nazionale.

«Se la domanda sarà: cosa ti ha dato più dolore nella vita? Come farò a non piangere così come stiamo, davanti a tutti?».

Morena fece tintinnare una forchetta contro una brocca. Reclamava l’attenzione di tutti: e, più di tutto, la loro verità.

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Il filmUna scena tratta da «La terrazza» di Ettore Scola

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