Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La terrazza: Morena, Marcello e gli atri
Morena, Marcello, Umberto e gli altri
La terrazza dominava le luci del centro storico, quella notte remota eppure viva quasi quanto il giorno. Da laggiù proveniva un rumore di fondo che però, dopo qualche minuto, gli invitati non percepivano più. A quel punto, infatti, il sottofondo sonoro annegava nel chiacchiericcio torrenziale della padrona di casa. Morena, l’attrice: quarantenne da un decennio, ossigenata, riccia, minuta, vivacissima. In verità gli anfitrioni, risultando cointestato l’appartamento, sarebbero stati due. Marcello però, più anziano di sua moglie, finiva spesso per risultare uno spettatore ritrovava ai margini del ménage. Incluse, naturalmente, queste serate estive che Morena, immancabilmente, tendeva a monopolizzare. In simili frangenti, mentre gli occhi in arrivo alla spicciolata sbaciucchiavano Morena, Marcello batteva in ritirata verso l’angolo della terrazza battezzato come esclusivamente suo. Non senza essersi servito, prima, con una porzione di riso in insalata ed un bicchiere di bianco (non si reputava un intenditore: l’alcol gli serviva stemperare, in modo più o meno effimero, il malumore).
Quanto agli ospiti: ognuno di loro – erano tutti amici di vecchia data o colleghi – aveva avuto modo, nel tempo, di mandare a memoria un certo copione non scritto e, tuttavia, ferreo. Con una serie di convenevoli – risaputi come «il bacio della pantofola» - bisognava festeggiare Morena, rafforzarla nel convincimento che il fulcro di quelle serate, la loro stella mondana, fosse lei, lei e nessun altro. Marcello, nella sua orsaggine, andava semplicemente lasciato in pace. Bastava mettersi in asse per un attimo con la sua faccia cavallina, nobilmente tediata, e indirizzargli un ciaociao con la manina. Oppure un sorriso di non compromettente vicinanza psicologica. Povero Marcello: nonostante avesse valicato i sessanta per tutta la serata Morena lo avrebbe chiamato in causa, ogni tanto, con il risibile appellativo di «bambolo». Marcello si portò alle labbra la prima forchettata di riso che, sebbene non lo disgustasse in senso stretto, lo lasciava sempre sconcertato. Miliardi di persone si sfamavano con un alimento così senza carattere, aveva dell’incredibile... Per fortuna che il primo sorso di bianco lo stava aiutando a ingerire il boccone. Stasera amareggiato anche da un inedito disagio masticatorio. Colpa della protesi temporanea che l’odontoiatra gli aveva adattato all’arcata superiore, in attesa di procedere all’impianto definitivo. Quella sgradevole sensazione di ingombro sotto il palato, che toglieva spazio di manovra alla lingua... La lingua che Marcello doveva tenere ritratta, per non dire mezza arrotolata nel cavo orale... Il sarcasmo della vita: lui, fin dal debutto, era stato additato come un fuoriclasse della dizione. Una scansione della parola sempre nitida e, tuttavia, scolpita senza enfasi accademica. Tutti lo avevano sempre annoverato fra quei professionisti del palcoscenico le cui performance possedevano, sotto l’aspetto della declamazione, un valore didattico esemplare per le nuove leve.
«Quand’è, invece, che mi sono accorto dei miei limiti come interprete?», si chiese Marcello, «C’è stato, ci sarà stato sicuramente un momento preciso in cui mi sono detto: tu non sei un grande attore... Oppure è successo come per certe malattie, che se ne stanno là silenti finché un’analisi non te le certifica nero su bianco».
Nel caso di Marcello, forse, questo verdetto cartaceo era coinciso con una recensione di Umberto che, nella sua reticenza e tiepidezza, esprimeva molto più di quanto non esplicitasse. La critica di un Riccardo III, prima ritagliata, poi appallottolata con rabbia... E ora Umberto – con quei suoi baffoni da servizio d’ordine sessantottesco, spruzzati di vecchiaia – faceva traboccare il piatto in cellulosa usa-e-getta, a pochi metri da lui. Umberto che rimaneva pur sempre il piccolo pontefice della critica teatrale cittadina.
«Pontefice...», Marcello storse la bocca, «Arcivescovo, tutt’al più. Questa città pensa di essere l’ombelico del mondo e, invece, ne è solo il buco del culo. Ma per favore...».
In ogni caso Marcello aveva finito per rimuoverlo, il giorno in cui aveva preso atto delle proprie, insuperabili limitazioni. Diciamo che impersonava altre vite in scena proprio per poter dimenticare i giorni infausti che facevano, di lui, un uomo infelice e votato allo spleen. Ogni personaggio era un’iniezione di morfina, di finzione anestetica. E adesso? Adesso le voci degli ospiti, fatta eccezione per il coriaceo mutismo di Umberto, stavano salendo di tono. Oramai più o meno tutti avevano composto il loro piatto, si erano abbeverati, un minimo quantitativo di alcol era confluito nel torrente ematico di ognuno. Le donne, notò Marcello, le donne erano tutte smanicate e senza età. Si curavano, le belle e le meno avvenenti. Si truccavano, si abbronzavano, si tingevano. Lottavano contro l’età con una diligenza tutta femminile nell’assolvere i compiti, oltre che con una disperazione tutta femminile nel non retrocedere, in desiderabilità, rispetto all’estate prima.
«E a me, invece?», si domandò Marcello, «Quand’è che toccherà a me la decadenza? Quand’è che le donne, fuori dalla scena, smetteranno una volta per tutte di guardarmi?».
Ora stava sminuzzando, impacciato dalla protesi, un’oliva dell’insalata di riso.
«Magari, non fosse per quello straccio di notorietà, sarei uguale ai miei coetanei in coda al supermercato».
Marcello si allucinò: era balenata la cassiera dagli zigomi alti e gli occhi oblunghi. Quella che inceneriva i clienti maschi sopra i quaranta con un’occhiata dal biancore di un laser, dopo la quale eri reso invisibile.
«Essere invisibile significa essere morto», pensò con un timbro sepolcrale.
E, intanto, Morena catechizzava gli ospiti sul pedaggio implicito nell’invito a cena. Di lì a poco avrebbe imposto loro uno di quei tremendi giochi basati su di una verità da confessare in pubblico. Autentici giochi al massacro; sedute di autocoscienza estorta che potevano sfociare in isteriche porte sbattute o inimicizie eterne come il diamante.
«Dio mio, la verità», Marcello incassò d’istinto il collo, «Non si rendono conto. Giocano con una pistola carica».
Nel frattempo un piccolo concerto di clacson, in lontananza, si era levato non lontano dal Museo Nazionale.
«Se la domanda sarà: cosa ti ha dato più dolore nella vita? Come farò a non piangere così come stiamo, davanti a tutti?».
Morena fece tintinnare una forchetta contro una brocca. Reclamava l’attenzione di tutti: e, più di tutto, la loro verità.