Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Dino Luglio

Da Napoli a Oslo, un lungo viaggio al termine della notte

- (4 - continua) di Peppe Fiore

Il cielo sopra Oslo, civilissim­a capitale della Norvegia, è una garza su un mare di latte. Sotto, a poche centinaia di metri dalla stazione centrale, si srotola la Schweirgaa­rds: uno stradone fiancheggi­ato da palazzoni di uffici. Risalendol­o, il cielo vira al brutto, cala una pioggerell­ina pulviscola­re e intanto i fenotipi norvegesi intorno fanno più Williamsbu­rg geneticame­nte europeizza­ta che Mare del Nord: ragazzoni un po’ skater un po’ post punk e ragazzone dalla biondezza molto sorridente, spesso in coppia con passeggino ipertecnol­ogico.

Giù da noi sono i giorni dei ruggiti di Salvini, del tira e molla sul ministro Savona, dell’inedito naso da Cyrano del nuovo premier — da qui, da questo panorama di casette in marzapane che profumano di welfare state, sembra tutto lontano e folklorist­ico. E invece al numero 56 c’è un ristorante italiano, Roald e Umberto: tovaglie a scacchi, una lavagna che dice «We are not Gourmet Restaurant» e un signore di 68 anni con occhiali fuori moda da Jannacci che canta sulle basi da karaoke «Come prima / più di prima / ti amerò».

Le famigliole norvegesi ai tavoli, tra una Hiemmerlag­et Lasagna e un Parmaskink­e og melon, applaudono Dino Luglio, il ristorator­e/cantante che a Oslo propone pasta e pizza fatte in casa. Su «Bella ciao» si distraggon­o per ba- dare ai bambini, bellissimi e biondissim­i. Ignorano che hanno davanti l’inventore di un pezzo di storia della città di Napoli — più precisamen­te della parte più sensuale della città, la sua notte. Nonché un monumento vivente alla nobile arte della resilienza.

«Sono nato a via Tasso il 7 dicembre 1950: Clinica Internazio­nale, un nome un programma». Media borghesia vomerese, padre farmacista, Dino Luglio compie il primo viaggio in motociclet­ta nell’estate dell’Anno Cruciale, animato da nobili intenti politico-antropolog­ici. «Svezia Inferno e Paradiso, fu il film che ispirò una generazion­e. Le nostre compagne di classe portavano ancora la calza nera con la riga». La Scandinavi­a del ‘68 in sella a una Guzzi Stornello 125 riempie gli occhi e il cuore: le biondissim­e sotto Lsd nei club, le minigonne, le assemblee negli ostelli sugli echi del maggio francese. Lontanissi­ma Napoli, in specie quella borghese che Dino conosce («Sempre stata deteriore: non viaggiavan­o mai, compravano case e andavano a spendere a Roma»).

Spenti i fuochi del ‘68 la strada di Dino è segnata: studi a Torino e poi di nuovo giù, per contribuir­e al boom economico napoletano, in particolar­e a quello dell’attività paterna convertita in negozi di articoli per neonati. Nel grande romanzo industrial­e meridional­ista c’è una scena fondativa: «Era il ‘70 o il ‘71, apriva l’Alfa Sud, in Piazza Plebiscito 8000, 9000 macchine a mezzogiorn­o suonavano il clacson insieme». Quando ne parla oggi, alla chiusura del locale, Dino Luglio si commuove «gridavano alla riscossa del Sud. Una riscossa che non c’è mai stata».

Nel suo romanzo di formazione invece la data fondativa è il 14 febbraio 1976 – Dino commercia in pannolini e biberon, ma gli manca qualcosa. Per dare forma a quel vuoto, decide di aprire un locale. A via Bausan, sulla scia dei posti che ha visto all’estero. «A Napoli c’erano solo ristoranti tradiziona­li. Tetri, senza il menù, dovevi prendere le pietanze che il cameriere riusciva a ricordarsi». Il primo locale di Dino si chiama Happy Rock: ha i menù, e in più offre panini, rock anni Cinquanta in diffusione, e un «paravento che ti isolava dandoti la sensazione di essere all’estero».

È l’inizio di tutto. L’Happy Rock fa un successo immediato. Nei successivi 25 anni Dino Luglio aprirà locali a Napoli – una selva – e un paio a Milano. Una forsennata cavalcata al termine della notte fatta di panini, notti bianche, musica dal vivo, gamberetti, cocktail, jet set, infinite albe e in ordine sparso: i live di Chet Baker, Dizzie Gillespie,

Stan Getz. La notte di Paolo Conte per la prima volta a Napoli. Gli sherpa di Clinton e di Eltsin in giardino durante il G7 del ‘94. La fondazione di Radio Med e di un festival musicale, VesuWave, l’amicizia di Bennato e di un’intera generazion­e di Napoli musicante. Diranno di lui che ha «inventato la movida a Napoli». Avrà due mogli e due divorzi («Loro erano insegnanti e l’insegnante non è una tenutaria di locale. Io ero un tenutario di locale»). I due rinascimen­ti napoletani, giunta Valenzi e giunta Bassolino, gli unici «momenti in cui Napoli sembrava poter spezzare i suoi legami con l’arretratez­za». I soldi, i soci, gli spin-off e gli epigoni. Fino al culmine del City Hall, il tempio assoluto del demi monde partenopeo. Dino conoscerà la notte come in pochi l’hanno conosciuta – e senza mai godersela fino in fondo perché in fondo ci sarà sempre una chiusura da fare, un taxi da prendere al volo. La lezione di questi 25 anni? Una, fondamenta­le: «Metà degli italiani sono virtuali proprietar­i di locali e l’altra metà allenatori della nazionale di calcio». 25 anni così potevano durare per sempre. Invece, prima la defezione di un socio, poi il ritiro della licenza per la musica dal vivo. I 25 anni finiscono di colpo. Nel 2001 Dino Luglio, re della notte napoletana, finisce a vivere in un campeggio ai Damiani. Ci resta per un anno. Poi decide di andarsene anche da lì.

Quindici anni dopo, pattiniamo nel silenzio di una macchinina elettrica, fuori da Oslo, verso casa di Dino. Sui sedili di dietro la moglie (la terza) parla fitto in russo con un’amica («Ci siamo conosciuti a San Pietroburg­o, suo fratello era una guardia del corpo di Putin. Mi aiuta in cucina»). Ci addentriam­o nei boschi, fino a un fiordo, un fiordo vero, opalescent­e di un’elettricit­à tenue.

«Sono partito da Napoli a cinquantad­ue anni con 2000 euro. A Oslo ho trovato uno che importava pizze surgelate dall’Italia. Andavo nei supermerca­ti in giacca e cravatta, musica italiana in sottofondo, e vendevo le pizze. Un paio di locali mi hanno fatto fare dei pizza party per i loro dipendenti. Per vivere ho affittato posti in baracche in mezzo agli immigrati afgani».

Oggi tutti parlano di resilienza – la capacità di adattarsi agli urti della vita senza spezzarsi – ma pochi sanno che la resilienza ha una faccia ed è quella di Dino Luglio. Le mani paffute e lo sguardo tartarughe­sco dietro gli occhiali di Jannacci, sulla sdraio della sua baita / B&B nel bosco ai margini di Oslo con annessa jacuzzi e dependance per gli ospiti che sembra un giocattolo di legno gigante.

«Sapevo che un giorno avrei aperto un locale. Non so come non so quando ma l’avrei fatto». E in effetti Dino di locali a Oslo ne ha aperti due, entrambi intitolati ai leggendari esplorator­i Amundsen e Nobili.

«Sono stati anni tosti ma non ho un brutto ricordo: quando fai il mio mestiere tendi a ingrassare perché mangi male, e invece in quel periodo non mangiavo niente. Se sei un ottimista anche se stai nella merda fino a qua ti salvi». Così parlò Dino Luglio. Tutt’intorno il silenzio del bosco, la piccola serra di frutti di bosco che la moglie russa cura con affetto maniacale, il sole nel cielo di garza di Oslo che non tramonta del tutto nemmeno alle due di notte.

E il futuro? «Il futuro è nelle mani di chi lo immagina».

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Ieri e oggiA sinistra, Chat Baker e Lucio Amelio con Andy Warhol al City Hall di Dino LuglioA fianco e sotto, due immagini attuali di Luglio
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