Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Mi mancano gli indiani. Però torno a sognare
Il profumo delle «nuove» graffe e la musichetta Resistono i fidanzatini, e poi c’è un bimbo griffato Cr7
Fa un caldo tremendo. Quando esco dalla mia macchina, nera, e abbandono il microclima di Aosta al dieci novembre grazie ai geni che hanno inventato l’aria condizionata, percepisco il luglio napoletano e penso che, almeno, ho parcheggiato vicino. Sono uscito di casa alle due del pomeriggio, partenza intelligente, tangenziale deserta, Fuorigrotta decongestionata. Direzione: Edenlandia.
Il parco giochi napoletano riapre, finalmente, e io sono andato a dare un’occhiata. Non sono stato un grande frequentatore della felicità, da bambino, e ad Edenlandia ci avrò messo piede un paio di volte, da piccino, e da adulto un altro paio. L’ultima, otto anni fa. E lo scenario era davvero inquietante. Sembrava un parco divertimenti con tema The Walking Dead. Ogni giostra cadeva a pezzi, il personale sembrava capitato lì per caso, in attesa di stipendio senza sapere cosa fare. La mia giostra preferita, oggi ancora chiusa in attesa di apertura, era il trenino del vecchio west. A me sono sempre piaciuti gli indiani, perché mi hanno sempre affascinato le minoranze e i loro proverbi. All’epoca, otto anni fa, quelle rotaie che affrontavano il breve percorso western, erano circondate da spuntoni di ferro che si muovevano stancamente, spuntoni di ferro vecchio alle cui estremità non erano neanche più attaccati i personaggi. Così poteva capitare di vedere un indiano tirare frecce a un gancio d’acciaio arrugginito.
Neanche David Lynch avrebbe osato tanto in vita sua. Ma oggi, anno 2018, mentre camminavo per la nuova Edenlandia ho notato lo spirito, di rilancio, di voglia, di crescita, della nostra città. Certo: di nuovo, rispetto ai fasti passati, non c’è quasi nulla. Hanno aggiornato la soglia di divertimento di questa generazione giovanile. Una escape room, un mini circuito di kart, ma soprattutto: chioschi di porcherie alimentari made in USA di cui, pare, tutti sentiamo il bisogno quando andiamo a divertirci o a fare compere nei centri commerciali. Poi, mi ricordo una cosa. La graffa di Edenlandia. La cerco, non è più al solito di posto, a pochi metri dall’ingresso, ma spostata dopo il castello con l’acqua intorno (anche questo chiuso, per ora, in attesa di riapertura, ma ci siamo). E, dopo averla pagata, in attesa che mi venga fritta davanti agli occhi (la mia colecisti con i calcoli mi ha ringraziato, qualche ora dopo), mi appoggio al bancone e inizio a chiacchiere con il simpatico e disponibile ragazzo del chiosco. Occhi azzurri da scugnizzo, tatuaggi su un avambraccio e un sorriso contagioso. Mi confessa che, la sera dell’inaugurazione, l’attrattiva principale erano loro.
«La fila vera stava qua davanti», e ride. È vero. Perché i napoletani sono un popolo tradizionalista e sognatore e la graffa di Edenlandia (da dire obbligatoriamente in un’unica emissione di fiato) ha cresciuto generazioni di bambini e genitori. È buona come allora, lo ammetto. E se anche da piccolo non avevo ancora i calcoli alla colecisti, mi sento esattamente come allora. Libero. Spensierato. Edenlandia è ancora viva. E lo ricorda, incessantemente, una musichetta filodiffusa cantata da una tipo Cristina D’Avena. In loop. «La magia è tornata, Edenlandia per sempre», cose così. E mentre gigioneggio in tondo, nonostante il calore asfissiante delle tre del pomeriggio di questo luglio forno a microonde, mi godo la gente presente; i ragazzini di quindici anni in comitiva che ridono scontrandosi nelle tozzi tozzi, le mamme con gli shorts di jeans che portano i figli sul trenino bruco, le coppiette di adolescenti che si baciano sulle panchine più appartate (ci avete fatto caso a Napoli quanti ragazzi si baciano, ovunque? Nel resto d’Italia non è così).
E penso che è salvifico essere piccoli, credere alle storie, sperare sempre che tutto diventi più bello. Ed è bello che Edenlandia funzioni ancora, anzi, di nuovo. Che questa città abbia un luogo, magari con qualche pecca e qualche stortura, per far sognare i bambini. Poi un ragazzino rapisce la mia attenzione, mentre penso a queste cose. Ha una maglia di calcio indosso. La schiena bianca, contorni neri, un numero 7 stampato dietro le scapole alate e strette. E no, non è il Nino della canzone di De Gregori. Ma il Cristiano della Juve. Un bambino, a Napoli, in mezzo ad Edenlandia, con la maglia juventina di CR7. Mi faccio una risata. E mentre lo guardo allontanarsi mano nella mano con il padre, penso che la fantasia, quando si manifesta, lo fa sempre nei modi più assurdi e dispettosi. Lunga vita ai piccoli, in qualsiasi modo siano vestiti.