Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La metropoli che oscilla tra Oslo e Calcutta
La globalizzazione ha un padre al quale nessuno penserebbe mai, portati come siamo a credere che l’idea del globale sia esclusivamente correlata al digitale e alla diffusione capillare e planetaria della Rete. È vero che oggi le notizie, i contatti, gli affari e i progetti attraversano il pianeta alla velocità della luce e che, nello spazio di tempo che impiegherò a scrivere queste righe, nel mondo saranno stati scambiati centinaia di miliardi di dati e saranno stati movimentati altrettanti euro e dollari. Ma la pietra miliare del linguaggio globale, in realtà, è un’altra e venne posata nel 1956 da Malcom McLean, geniale uomo d’affari statunitense, che pensò che caricare e scaricare le sue merci da un porto all’altro sui camion gravava di ulteriori spese il suo business e, inoltre, costituiva un enorme spreco di tempo.
Ebbe così un’idea folgorante: invece di caricare i camion interi perché non caricare a bordo i soli cassoni? I tempi si sarebbero accorciati di molto, e si sarebbero potuti caricare sulle navi molti più cassoni impilandoli uno sull’altro, come si fa con le sedie da giardino. Era nato il container.
Per avere un’idea della forza rivoluzionaria di quella ingegnosa trovata basti pensare che in quegli anni il carico delle merci, nei porti americani, costava 5,86 dollari la tonnellata. L’utilizzo dei container ridusse quei costi fino a 16 centesimi a tonnellata. Inoltre, i tempi di carico e scarico si riducevano a un decimo. Insomma, una rivoluzione.
Il progresso viaggia sulla rotta delle merci, diceva il grande storico Jacques Le Gof-
fe. E forse Mc Lean non poteva immaginare la spinta propulsiva che la sua trovata avrebbe assicurato al mondo intero. Perché l’intero sistema degli scambi commerciali si adattò molto rapidamente al nuovo mezzo di trasporto, al nuovo linguaggio delle merci: nacquero quindi le navi porta container, e con esse un intero sistema portuale che prevedeva gru, treni, motrici adattabili al carico e scarico di quel contenitore universale. I porti e gli scali ferroviari ad essi adiacenti cambiarono volto.
Insieme al container Mc Lean aveva inventato lo standard, vale a dire un linguaggio comune che sarebbe stato adottato in tutti i traffici commerciali del pianeta. Oggi non vi è porto al mondo – da Helsinki a Auckland – che non adotti quello standard, una sorta di esperanto da tutti praticato. I parametri condivisi costituiscono una chiave indispensabile per mettere in moto il motore del progresso. Il riconoscimento e il rispetto degli standard costituisce al tempo stesso una garanzia e una certezza per l’utente, chiunque egli sia.
Se le misure con cui parametriamo i beni e i servizi sono uguali dappertutto abbiamo stabilito l’esistenza di un sistema di garanzie universalmente riconosciuto. Questo vale, ad esempio, anche per i sistemi di valutazione della qualità. Se andiamo in un albergo a quattro stelle, in qualunque città del mondo, siamo certi di trovarvi la pulizia quotidiana delle stanze, il cambio giornaliero della biancheria da bagno e quello settimanale delle lenzuola, un portiere a presidiare l’ingresso anche di notte, il frigobar in camera, un ristorante e la possibilità di fare colazione in camera. Una stella in più o in meno aggiunge o toglie benefit. Ma si tratta sempre di parametri riconosciuti e condivisi, per questo ogni viaggiatore può essere ragionevolmente certo di soddisfare le sue esigenze sulla base di quei punti fermi condivisi e ovunque rispettati.
Anche le metropoli europee hanno un loro standard. Cosa siamo ragionevolmente sicuri di aspettarci da un’area metropolitana di due milioni di abitanti – per dire –, quali saranno i parametri comuni con le altre città europee? Quale standard dobbiamo aspettarci? Per esempio, possiamo essere sicuri che abbia un sistema di trasporti efficiente; un’assistenza sanitaria adeguata; un sistema scolastico funzionante; una burocrazia non oppressiva ed efficace; che sia un luogo in cui sia garantita la sicurezza dei suoi abitanti; che sia, in definitiva, una città provvista di una rete di servizi adeguata alle esigenze della comunità. Questo, in estrema sintesi, significa rispettare i parametri, gli standard comuni a ogni metropoli europea.
Viceversa, può ancora definirsi europea una città in cui il servizio di trasporto pubblico ha raggiunto inimmaginabili abissi di disservizio? Può ancora dirsi civile una metropoli in cui occorre prostrarsi ai piedi di un impiegato per ottenere il rilascio di un banale documento di identità? A quale standard risponde una città in cui la sicurezza dei suoi abitanti è costantemente a rischio, dove esistono aree fuori controllo, dove gli operatori sanitari vengono assaliti, dove il servizio di raccolta dei rifiuti è lasciato alla buona volontà degli operatori?
Quali sono i parametri di riferimento di una metropoli in cui una madre deve combattere una battaglia quotidiana perché il suo bambino possa superare, giorno dopo giorno, i baratri che una pessima gestione dell’assistenza gli fa aprire davanti, come capita alla mamma del piccolo Tommy, abbandonato alle difficoltà del suo handicap da una città matrigna, come raccontava Rossella Capobianco sulle pagine di questo giornale un paio di giorni fa.
Osservare gli standard di qualità vuol dire, in sostanza, essere una città i cui parametri sono quelli riconoscibili e rispettati ovunque, evitando quel pendolo che fa continuamente oscillare Napoli tra Oslo e Calcutta.