Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Metti una sera a cena L’attore, il critico e il giornalista spaccone
La cena in piedi sarebbe durata ancora a lungo, valutò Marcello. Meglio perdere lo sguardo nel buio puntinato di luci che si distendeva sotto il terrazzo, fin troppo animato, di casa.
In effetti Napoli, dall’alto e di notte, sa dare il meglio di sé. Come certe donne che, vestite di tutto punto e di nero, sono magnifiche. O come certe amanti che al buio – e solo al buio – si stendono sotto di te e sembrano dee. Purtroppo o per fortuna, rifletté Marcello, il ciclo giornaliero alterna il sortilegio del buio e il disincanto della luce. Cosicché certe donne e certe città si rivelano per ciò che sono. Né più, né meno (casomai meno). Allora Marcello — attore non più giovane e padrone di casa — distolse lo sguardo dal panorama notturno che gli sollecitava queste aride, dunque malinconiche, considerazioni. Riportò lo sguardo sulla terrazza che scoppiettava di risatine e frecciatine. Un po’ di stampa, pierre qua e là, come piante infestanti... Gli attori e le attrici più giovani della compagnia fingevano di flirtare.
«Flirtare? Ma quanti secoli hai? Come parli?».
Flirtare era un termine che rinviava ad un concetto e ad una pratica già desueti verso a fine anni ‘60. Quando Morena, sua compagna di scena e sulla scena della vita, non era ancora nata. Ahi, lieve spasmo all’epigastrio: Marcello conviveva con la propria colite dall’età di sei anni. Vale a dire quando, in Italia, le malattie psicosomatiche manco esistevano come categoria diagnostica (e, difatti, allora questa Nazione cresceva, battagliava, stringeva i denti). Beata Morena, sospirò Marcello: una donna capace di esternarle le proprie nevrosi, senza però crogiolarsi in troppe complicazioni intellettualistiche. E come le manifestava, Morena, queste sue patologie? Svolazzando fra gli invitati mentre il baricentro della serata – una piccola musica abbastanza teatrale – si spostava in parallelo con il suo corpo minuto, scattante, imperioso. Con la sua biondezza ondulata e ossigenata.
«Per fortuna ho il mio angolo», rifletté Marcello, infilzando un tentacolo di polpo in insalata. «Il che, peraltro, significa che mi sono lasciato mettere nell’angolo».
Quantomeno nella proiezione mondana della loro vita di coppia; sul palcoscenico, per fortuna, il protagonista era ancora lui.
«Finché la memoria tiene. Sperando sempre che regga meglio dei miei denti».
L’apparecchio provvisorio, un rattoppo fino alla messa in opera dell’impianto dentale, gli rendeva difficoltoso l’addentare e il mordere (il supplizio sarebbe durato fino ai principi di settembre, con l’osso che implorava il tempo di cicatrizzarsi).
«Mettiamo che una di queste donne volesse baciarmi», pensò Marcello. Sarebbe stata un’ipotesi tutt’altro che irrealistica, solo fino ad alcuni anni prima.
«Secondo me lei si tirerebbe indietro inorridita. Subito».
Lo intristì a sangue l’idea di una lingua che si faceva retrattile a contatto con la sua arcata di plastica dura, mentre la bocca dell’altra si staccava in preda ad un disgusto subitaneo per l’incresciosa scoperta. Marcello incassò la testa.
«In effetti , se devo dire, fa senso anche a me».
Più che altro lo straniva. Lo straniva, ogni mattina, doversi applicare la protesi e incastrarla con una lieve pressione, clic. Era come sovrapporre una maschera alla parte inferiore della mascella. Non per nulla, da qualche sera, stazionava sul suo comodino «Confessioni di una maschera»: il capolavoro di Mishima. «Disturbo?». Incredibile: Umberto Ceriale, il misantropo e a volte mordace critico teatrale, era venuto a rifugiarsi proprio vicino a lui, trascinando e facendo stridere una sedia in ferro battuto.
«Tu non disturbi mai». «Non è questo grande complimento per un critico. In quanto tale dovrei disturbare sempre».
«Diciamo, allora, che disturbi meno di altri».
Il critico aveva aggrottato la fronte.
«Disturbi molto meno del tuo capo», gli bisbigliò Marcello, ammiccando verso l’angolo opposto della terrazza. Verso Ludovico Botalla: il caporedattore degli Spettacoli. Il panzone intento a dispensare grevi spiritosaggini ad alcune addette-stampa, sue abituali adulatrici che mascheravano il disgusto fisico dietro sorrisi trasognati e ancillari.
«Le sue leccastivali…», commentò il critico.
«Stivali?», gli occhi ora pungenti di Marcello. «Leccapiedi allora». «Piedi?», rincarò Marcello con malizia.
Il critico stiracchiò un mezzo sorriso, più che altro una smorfia pietosa. Stasera, nonostante alcuni dissapori con Marcello, Umberto Ceriale sembrava in vena di confidenze.
«Sai una cosa? Detto fra noi: mai capito come facciano ad andarci a letto...».
Stavolta toccò a Marcello corrugare la fronte. Davvero il critico era così romantico, con tutto il suo vantato cinismo, da non mettere in conto il carattere decisivo del Potere nel determinare le strategie seduttive, l’uso strumentale del corpo, il circuito di scambio del sesso? Le an- celle di Botalla avevano soppesato i vantaggi professionali e gli svantaggi estetici di quel congiungimento carnale con un uomo libidinoso, ma non particolarmente virile. Una somma algebrica che, evidentemente, doveva fornire un risultato positivo. Alcune attrici della compagnia di Marcello, per il passato, avevano fatto in modo di ingraziarsi Botalla. E a Morena avevano confidato per filo e per segno le miserie psicologiche di quell’uomo, perfettamente oggettivate dal suo aspetto fisico.
«Ma l’aspetto è il meno», sibilò Marcello. «Tutti invecchiamo. E ho conosciuto persone non bellissime che sapevano incantarti con altri pregi. Quello che non sopporto è il suo cappello».
Un panama bianco che Botalla, per celare l’incipiente calvizie, calcava in testa sempre e comunque. Anche a casa d’altri – e con l’aria di darsi un tono da eccentrico.
«Sai una cosa?», continuò Marcello, «Avrei voglia di alzarmi e di sbatterglielo a terra, quel suo cappello di merda. In casa mia si sta a testa scoperta, marrano!».
Umberto Ceriale aveva gli occhi lucidi come vetrini da laboratorio.
«Sì, fallo! Fallo, te ne prego! Se lo fai mi metterò in ginocchio davanti a te in pubblico. Ti cucirò addosso delle recensioni che non hai idea. Fallo, fallo!».
Qualche ora più tardi, Marcello disincastrò l’apparecchio dalla bocca. Senza maschera. La vita gli appariva, da tempo, un territorio pianeggiante senza sorprese e senza anfratti dove lui potesse nascondersi al riconoscimento dei propri limiti. Stasera, per esempio, aveva sognato di assestare a Botalla uno scappellotto. All’ultimo momento non se l’era sentita. Peccato: la città ne avrebbe parlato, sarebbe stata un’ultima occasione di gloria.