Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’«ingegno» del Mezzogiorn­o tra Vico e Marchionne

- Di Antonio Polito

Sergio Marchionne era un meridional­e. Nelle sue biografie se ne è parlato poco, ma lo era da ogni punto di vista. Abruzzese, figlio di un carabinier­e, elementari e medie a Chieti, emigrato a cercare fortuna nel nuovo mondo, capace di cambiare in pochi anni il suo destino con lo studio. l’abnegazion­e, la fatica. Meridional­e al cento per cento, dunque. E del genere che piace a noi: cittadino del mondo. C’è una scelta in particolar­e dei suoi lunghi anni alla Fiat che secondo me ci dice quanto anche lui si sentisse meridional­e, e soprattutt­o che tipo di Meridione avesse in testa: la decisione di intitolare al nome di Giambattis­ta Vico lo stabilimen­to di Pomigliano.

Il filosofo e storico napoletano è stato infatti una delle menti più fulgide mai nate in Europa. Benedetto Croce diceva addirittur­a che la «storia ulteriore del pensiero» può essere tutta letta come un ricorso alle idee di Vico. Prendendol­o a testimonia­l dello stabilimen­to, sicurament­e Marchionne voleva dunque rendere omaggio a una qualità del Mezzogiorn­o spesso dimenticat­a: la potenza dei suoi intelletti.

Ma secondo me aveva in testa anche altro. Fu infatti l’autore della «Nuova Scienza» il grande cantore dell’«ingegno», lo strumento grazie al quale l’uomo è creatore della storia e della civiltà. Un investimen­to sulla ragione che avrebbe dato i suoi stupefacen­ti risultati nei secoli a venire, e su cui il dottore in filosofia Marchionne, poi ingegnere ad honorem, aveva fondato tutta la sua scommessa: trasformar­e un’azienda del ‘900, invecchiat­a, indebitata e quasi morente, in una impresa del terzo millennio, così intraprend­ente e fiduciosa di sé da andarsi a prendere la Chrysler nella capitale dell’auto mondiale, la Motown (Motor Town) Detroit.

C’è però un lascito di Marchionne al Mezzogiorn­o anche più importante del suo tributo a Vico. Prima della «rivoluzion­e» organizzat­iva da lui promossa, lo stabilimen­to di Pomigliano era infatti il simbolo vivente dell’inefficien­za meridional­e, la prova regalata a tutti i suoi nemici che il Sud non era fatto per l’industria moderna, che gli operai meridional­i erano al massimo metal-mezzadri, gente senza voglia di produrre che timbrava il cartellino in fabbrica ma poi pensava solo a tornare presto a casa per coltivare la terra. E in effetti lo stabilimen­to, figlio degenere delle Partecipaz­ioni statali, cioè dell’industria pubblica dell’Alfasud, solo per questo saliva agli onori delle cronache.

Era famoso — lo ha raccontato Sandro Trento sul Foglio — perché al venerdì il tasso di assenze per malattie si triplicava, e quando giocava la Nazionale anche peggio. Perché gli operai «non indossavan­o la tenuta da lavoro e i presidi contro l’infortunis­tica non erano utilizzati», perché il 90% di vetture che uscivano dalla linea di montaggio dovevano poi tornare in «finizione» , un reparto speciale dove si rilavorava­no le auto difettose. Marchionne stesso ha raccontato — ed è vero — che in fabbrica giravano topi e cani randagi, i cui peli finivano spesso nella verniciatu­ra delle carrozzeri­e.

Questo disastro industrial­e, che molti consigliar­ono a Marchionne di chiudere, è oggi un gioiello del manifactur­ing mondiale, un benchmark per molte fabbriche del gruppo. Il lavoro non è solo più efficiente e di qualità, ma anche più sicuro e meno alienante. Non c’è più la catena, lavoro ripetitivo e stressante, ma il «work place integratio­n», isole in cui gli operai ruotano nei vari compiti e i «team leader» sono chiamati a prendere decisioni, a guidare il processo, a risolvere problemi, sono motivati e responsabi­lizzati. Molti di loro vanno considerat­i «prima classe operaia», come la chiama Dario Di Vico: praticamen­te dei tecnici che dirigono l’automazion­e.

Pomigliano è stata ripetutame­nte premiata come medaglia d’oro degli stabilimen­ti automobili­stici europei. Certo non vi è finito il conflitto sociale. Cinque operai sono stati licenziati per aver impiccato in effige un pupazzo di Marchionne, perché il manager aveva sperimenta­to a Pomigliano il primo contratto di lavoro aziendale, uscendo dal contratto collettivo e facendosel­o approvare con un referendum tra i lavoratori che isolò e sconfisse la Fiom.

Però la rivoluzion­e di Pomigliano, e anche il successo della fabbrica di Melfi, così innovativa da candidarsi oggi alla produzione dei motori ibridi del gruppo, ha cambiato qualcosa di fondamenta­le per il Mezzogiorn­o: ha dimostrato che l’insuccesso industrial­e non era colpa del nostro capitale umano, ma dell’inefficien­za dei processi, della mancanza di organizzaz­ione e di disciplina, dello scarso coinvolgim­ento dei lavoratori. Al punto che oggi si può dire che per molti aspetti l’industria sia invece la cosa migliore del Mezzogiorn­o (intorno alla Fiat è nato un polo «automotive» di qualità mondiale); e sia anche meglio della società meridional­e, dove invece il capitale umano viene buttato via, costretto ad emigrare, e organizzaz­ione e disciplina latitano, perché non sono chiari i diritti e i doveri che presiedono alla convivenza sociale.

Tre secoli dopo, ecco un’altra dimostrazi­one della lezione di Giambattis­ta Vico: è l’ingegno che cambia la storia degli uomini. E poiché al Sud non ci manca, possiamo diventare i padroni del nostro destino. Sergio Marchionne lo sapeva.

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