Corriere del Mezzogiorno (Campania)
L’«ingegno» del Mezzogiorno tra Vico e Marchionne
Sergio Marchionne era un meridionale. Nelle sue biografie se ne è parlato poco, ma lo era da ogni punto di vista. Abruzzese, figlio di un carabiniere, elementari e medie a Chieti, emigrato a cercare fortuna nel nuovo mondo, capace di cambiare in pochi anni il suo destino con lo studio. l’abnegazione, la fatica. Meridionale al cento per cento, dunque. E del genere che piace a noi: cittadino del mondo. C’è una scelta in particolare dei suoi lunghi anni alla Fiat che secondo me ci dice quanto anche lui si sentisse meridionale, e soprattutto che tipo di Meridione avesse in testa: la decisione di intitolare al nome di Giambattista Vico lo stabilimento di Pomigliano.
Il filosofo e storico napoletano è stato infatti una delle menti più fulgide mai nate in Europa. Benedetto Croce diceva addirittura che la «storia ulteriore del pensiero» può essere tutta letta come un ricorso alle idee di Vico. Prendendolo a testimonial dello stabilimento, sicuramente Marchionne voleva dunque rendere omaggio a una qualità del Mezzogiorno spesso dimenticata: la potenza dei suoi intelletti.
Ma secondo me aveva in testa anche altro. Fu infatti l’autore della «Nuova Scienza» il grande cantore dell’«ingegno», lo strumento grazie al quale l’uomo è creatore della storia e della civiltà. Un investimento sulla ragione che avrebbe dato i suoi stupefacenti risultati nei secoli a venire, e su cui il dottore in filosofia Marchionne, poi ingegnere ad honorem, aveva fondato tutta la sua scommessa: trasformare un’azienda del ‘900, invecchiata, indebitata e quasi morente, in una impresa del terzo millennio, così intraprendente e fiduciosa di sé da andarsi a prendere la Chrysler nella capitale dell’auto mondiale, la Motown (Motor Town) Detroit.
C’è però un lascito di Marchionne al Mezzogiorno anche più importante del suo tributo a Vico. Prima della «rivoluzione» organizzativa da lui promossa, lo stabilimento di Pomigliano era infatti il simbolo vivente dell’inefficienza meridionale, la prova regalata a tutti i suoi nemici che il Sud non era fatto per l’industria moderna, che gli operai meridionali erano al massimo metal-mezzadri, gente senza voglia di produrre che timbrava il cartellino in fabbrica ma poi pensava solo a tornare presto a casa per coltivare la terra. E in effetti lo stabilimento, figlio degenere delle Partecipazioni statali, cioè dell’industria pubblica dell’Alfasud, solo per questo saliva agli onori delle cronache.
Era famoso — lo ha raccontato Sandro Trento sul Foglio — perché al venerdì il tasso di assenze per malattie si triplicava, e quando giocava la Nazionale anche peggio. Perché gli operai «non indossavano la tenuta da lavoro e i presidi contro l’infortunistica non erano utilizzati», perché il 90% di vetture che uscivano dalla linea di montaggio dovevano poi tornare in «finizione» , un reparto speciale dove si rilavoravano le auto difettose. Marchionne stesso ha raccontato — ed è vero — che in fabbrica giravano topi e cani randagi, i cui peli finivano spesso nella verniciatura delle carrozzerie.
Questo disastro industriale, che molti consigliarono a Marchionne di chiudere, è oggi un gioiello del manifacturing mondiale, un benchmark per molte fabbriche del gruppo. Il lavoro non è solo più efficiente e di qualità, ma anche più sicuro e meno alienante. Non c’è più la catena, lavoro ripetitivo e stressante, ma il «work place integration», isole in cui gli operai ruotano nei vari compiti e i «team leader» sono chiamati a prendere decisioni, a guidare il processo, a risolvere problemi, sono motivati e responsabilizzati. Molti di loro vanno considerati «prima classe operaia», come la chiama Dario Di Vico: praticamente dei tecnici che dirigono l’automazione.
Pomigliano è stata ripetutamente premiata come medaglia d’oro degli stabilimenti automobilistici europei. Certo non vi è finito il conflitto sociale. Cinque operai sono stati licenziati per aver impiccato in effige un pupazzo di Marchionne, perché il manager aveva sperimentato a Pomigliano il primo contratto di lavoro aziendale, uscendo dal contratto collettivo e facendoselo approvare con un referendum tra i lavoratori che isolò e sconfisse la Fiom.
Però la rivoluzione di Pomigliano, e anche il successo della fabbrica di Melfi, così innovativa da candidarsi oggi alla produzione dei motori ibridi del gruppo, ha cambiato qualcosa di fondamentale per il Mezzogiorno: ha dimostrato che l’insuccesso industriale non era colpa del nostro capitale umano, ma dell’inefficienza dei processi, della mancanza di organizzazione e di disciplina, dello scarso coinvolgimento dei lavoratori. Al punto che oggi si può dire che per molti aspetti l’industria sia invece la cosa migliore del Mezzogiorno (intorno alla Fiat è nato un polo «automotive» di qualità mondiale); e sia anche meglio della società meridionale, dove invece il capitale umano viene buttato via, costretto ad emigrare, e organizzazione e disciplina latitano, perché non sono chiari i diritti e i doveri che presiedono alla convivenza sociale.
Tre secoli dopo, ecco un’altra dimostrazione della lezione di Giambattista Vico: è l’ingegno che cambia la storia degli uomini. E poiché al Sud non ci manca, possiamo diventare i padroni del nostro destino. Sergio Marchionne lo sapeva.