Corriere del Mezzogiorno (Campania)
CISSÈ, CITTADINO DI NAPOLI
Èopportuna una riflessione più pacata dopo la violenza di cui è stato oggetto Cissè Elhadji Diebel, il ragazzo senegalese ferito al femore venerdì sera, 2 agosto, con alcuni colpi di pistola sparatigli contro da due persone in motorino. In primo luogo, va detto che la comunità senegalese sta pagando un prezzo molto alto a Napoli, come in altre città italiane. Già agli inizi del 2017 furono feriti tre ragazzi senegalesi, sempre nella zona di piazza Garibaldi. Episodio di una gravità inaudita, che mise a rischio la vita di una bambina napoletana. Sono fatti di sangue in cui è chiaro chi sono le vittime e chi sono i carnefici. Le vittime sono i ragazzi senegalesi cui si spara contro come se fossero birilli. Sono attacchi – bisogna dirlo con franchezza – determinati dal colore della pelle. Sono neri e dunque possono essere oggetto di violenza. Questo è il dato di partenza. Eppure, la comunità senegalese è tra le prime ad essere giunta a Napoli, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, con un chiaro intento di integrarsi e mostrando simpatia per la nostra città. Infatti, un altro dato evidente è che sono spesso persone risiedenti tra noi da molti anni. Lo zio e il cugino di Cissè sono in Italia da circa 25 anni. Sono nostri concittadini. Giunti poco più che ragazzi, hanno qui famiglia, lavoro, casa, figli, inseriti da tempo nella nostra società. Ma anche Cissè, in Italia da 7 anni con permesso di soggiorno, lo potrebbe essere dal punto di vista formale.
Soltanto se l’Italia, come altri Paesi europei, avesse una legge in grado di dare la cittadinanza con tempi più celeri. E ciò che mi ha detto Cissè: «Mi sento figlio di questa città. Infatti, come faccio a sentirmi ancora immigrato quando vivo in Italia da 7 anni e una parte importante della mia famiglia è in Italia da circa un quarto di secolo?». Del resto, qualche giorno fa sui giornali è stata pubblicata la notizia di tre ragazzi, figli di nigeriani, nati a Castel Volturno, oggi maggiorenni, a cui non è ancora stata concessa la cittadinanza italiana.
Così in Italia la condizione di migrante non è una fase di passaggio della propria esistenza (come dovrebbe portare a pensare lo stesso termine) per approdare
a un altro status volto a definire la nuova identità. E’ invece un lungo periodo di incertezza, fatto anche di amarezza, che non prende atto dei processi di integrazione in corso. Con una legislazione volutamente inadeguata, per tanti anni ci si ostina a mantenere le distanze tra «noi» e i «migranti», una categoria in Italia dilatata cronologicamente al di là di ogni logica razionale. Si etichettano le persone in modo falso, ingolfando gli uffici della Questura con pratiche interminabili, si rende la vita faticosa. Se questo porre le distanze determina qualche consenso elettorale, resta irrisolto il principale problema del nostro tempo: la costruzione di una società coesa e aperta al mondo.
In conclusione, una breve riflessione merita il concetto di degrado. Se ne è parlato diffusamente dopo il ferimento di Cissè, quasi che le brutte condizioni di vita in cui versa il quartiere Vasto possano giustificare qualsiasi tipo di violenza. Lo si sarebbe potuto evitare per rispetto del ragazzo senegalese. Un’occasione persa. Ma forse giova ricordare che il degrado non è mai determinato dalle persone in quanto tali. È vero, c’è una umanità dolente che gravita attorno alla stazione ferroviaria. Sicuramente in questa categoria non rientra Cissè, che quando è stato ferito tornava dal lavoro. Ma di fronte a una situazione complessa, stratificata nel tempo anche per scelte sbagliate compiute dalle istituzioni (è il caso degli alberghi che ospitano centinaia di ragazzi aspiranti rifugiati), non serve, soprattutto dalla politica, manifestare la pura denuncia, magari demagogicamente urlata.
Occorre investire, realizzare impegnativi progetti di qualificazione urbana, controllare attentamente il territorio contro abusi di qualsiasi tipo, insomma «sporcarsi le mani» e adoperarsi concretamente senza pregiudizi con un chiaro intento: costruire una comunità in cui una volta e per tutte si smetta di pensare che la diversità del colore della pelle mette a rischio la convivenza civile. Può sembrare un’ovvietà, ma alla luce delle discussioni più recenti, è bene ribadirlo con forza.