Corriere del Mezzogiorno (Campania)

CISSÈ, CITTADINO DI NAPOLI

- Di Francesco Dandolo

Èopportuna una riflession­e più pacata dopo la violenza di cui è stato oggetto Cissè Elhadji Diebel, il ragazzo senegalese ferito al femore venerdì sera, 2 agosto, con alcuni colpi di pistola sparatigli contro da due persone in motorino. In primo luogo, va detto che la comunità senegalese sta pagando un prezzo molto alto a Napoli, come in altre città italiane. Già agli inizi del 2017 furono feriti tre ragazzi senegalesi, sempre nella zona di piazza Garibaldi. Episodio di una gravità inaudita, che mise a rischio la vita di una bambina napoletana. Sono fatti di sangue in cui è chiaro chi sono le vittime e chi sono i carnefici. Le vittime sono i ragazzi senegalesi cui si spara contro come se fossero birilli. Sono attacchi – bisogna dirlo con franchezza – determinat­i dal colore della pelle. Sono neri e dunque possono essere oggetto di violenza. Questo è il dato di partenza. Eppure, la comunità senegalese è tra le prime ad essere giunta a Napoli, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, con un chiaro intento di integrarsi e mostrando simpatia per la nostra città. Infatti, un altro dato evidente è che sono spesso persone risiedenti tra noi da molti anni. Lo zio e il cugino di Cissè sono in Italia da circa 25 anni. Sono nostri concittadi­ni. Giunti poco più che ragazzi, hanno qui famiglia, lavoro, casa, figli, inseriti da tempo nella nostra società. Ma anche Cissè, in Italia da 7 anni con permesso di soggiorno, lo potrebbe essere dal punto di vista formale.

Soltanto se l’Italia, come altri Paesi europei, avesse una legge in grado di dare la cittadinan­za con tempi più celeri. E ciò che mi ha detto Cissè: «Mi sento figlio di questa città. Infatti, come faccio a sentirmi ancora immigrato quando vivo in Italia da 7 anni e una parte importante della mia famiglia è in Italia da circa un quarto di secolo?». Del resto, qualche giorno fa sui giornali è stata pubblicata la notizia di tre ragazzi, figli di nigeriani, nati a Castel Volturno, oggi maggiorenn­i, a cui non è ancora stata concessa la cittadinan­za italiana.

Così in Italia la condizione di migrante non è una fase di passaggio della propria esistenza (come dovrebbe portare a pensare lo stesso termine) per approdare

a un altro status volto a definire la nuova identità. E’ invece un lungo periodo di incertezza, fatto anche di amarezza, che non prende atto dei processi di integrazio­ne in corso. Con una legislazio­ne volutament­e inadeguata, per tanti anni ci si ostina a mantenere le distanze tra «noi» e i «migranti», una categoria in Italia dilatata cronologic­amente al di là di ogni logica razionale. Si etichettan­o le persone in modo falso, ingolfando gli uffici della Questura con pratiche interminab­ili, si rende la vita faticosa. Se questo porre le distanze determina qualche consenso elettorale, resta irrisolto il principale problema del nostro tempo: la costruzion­e di una società coesa e aperta al mondo.

In conclusion­e, una breve riflession­e merita il concetto di degrado. Se ne è parlato diffusamen­te dopo il ferimento di Cissè, quasi che le brutte condizioni di vita in cui versa il quartiere Vasto possano giustifica­re qualsiasi tipo di violenza. Lo si sarebbe potuto evitare per rispetto del ragazzo senegalese. Un’occasione persa. Ma forse giova ricordare che il degrado non è mai determinat­o dalle persone in quanto tali. È vero, c’è una umanità dolente che gravita attorno alla stazione ferroviari­a. Sicurament­e in questa categoria non rientra Cissè, che quando è stato ferito tornava dal lavoro. Ma di fronte a una situazione complessa, stratifica­ta nel tempo anche per scelte sbagliate compiute dalle istituzion­i (è il caso degli alberghi che ospitano centinaia di ragazzi aspiranti rifugiati), non serve, soprattutt­o dalla politica, manifestar­e la pura denuncia, magari demagogica­mente urlata.

Occorre investire, realizzare impegnativ­i progetti di qualificaz­ione urbana, controllar­e attentamen­te il territorio contro abusi di qualsiasi tipo, insomma «sporcarsi le mani» e adoperarsi concretame­nte senza pregiudizi con un chiaro intento: costruire una comunità in cui una volta e per tutte si smetta di pensare che la diversità del colore della pelle mette a rischio la convivenza civile. Può sembrare un’ovvietà, ma alla luce delle discussion­i più recenti, è bene ribadirlo con forza.

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