Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Milano e Napoli I destini opposti delle «gallerie»: una chic, l’altra suk
L’abito fa il monaco oppure no? Per dirla meglio: la forma è il volto del contenuto, oppure ne costituisce soltanto la veste, per cui quello che conta è unicamente la sostanza e mai il modo in cui le cose vengono presentate? Lo so che sembra una questione poco all’ordine del giorno, in tempi di emergenza economica e sociale come quelli che viviamo da una decina di anni a questa parte. Eppure la faccenda ha una sua rilevanza. E proverò a spiegare perché, se avrete la pazienza di seguirmi per le prossime righe. Facciamo un passo indietro. Intorno alla metà dell’Ottocento, Milano pensò di imbellettarsi e ridisegnare la zona intorno al Duomo, il cuore della città. Il dibattito era fervido: la città non poteva presentarsi all’appuntamento con la storia (l’indipendenza dall’Austria) senza un abito urbanistico adeguato.
E così, su idea di Carlo Cattaneo, si cominciò a pensare a una galleria commerciale che potesse unire piazza della Scala al maestoso Duomo. A Milano esisteva già una galleria, a dire il vero: la galleria De Cristoforis, ma non poteva certo essere paragonata alla Vivienne di Parigi o alla Burlington arcade di Londra.
Al primo bando di concorso, il 3 aprile 1860, vennero presentati centinaia di progetti. La commissione selezionatrice effettuò una prima scrematura scegliendone 176, che furono esposti alla pinacoteca di Brera. Furono necessari però altri due concorsi, prima che la costruzione dell’opera venisse affidata a Giuseppe Mengoni.
Dedicarla a Vittorio Emanuele II fu una scelta naturale, prima che politica. E anche un po’ ruffiana: per realizzare l’opera occorreva abbattere un paio di fabbricati in piazza Duomo, operazione per la quale era indispensabile un permesso regio. I lavori vennero conclusi nel 1876 e i milanesi si innamorarono subito si quell’opera maestosa. Furono loro a definire la Galleria Vittorio Emanuele II il salotto di Milano. E quello in effetti diventò in breve: ai tavolini del caffè Campari e del Caffè Gnocchi (oggi Savini) sedeva tutta la buona borghesia meneghina. Nel giro di pochi anni la galleria divenne luogo di ritrovo anche politico e artistico: fu lì che Tommaso Marinetti e i suoi seguaci diedero vita al futurismo. Ma la vera anima della galleria restava musicale e commerciale: era quasi un obbligo sociale, per chi andava alla Scala, bere qualcosa ai tavoli dei bar, prima di andare al teatro. E sempre sotto quelle volte gli impresari musicali e musicisti siglavano contratti e stabilivano serate e tournée.
Napoli aveva un centro storico molto diverso da quello di Milano. I quartieri spagnoli, verso la fine dell’Ottocento, non erano la cornucopia di idee, di proposte commerciali, un piccolo centro della movida (soprattutto nella fascia adiacente a via Toledo) come oggi. A quell’epoca quei vicoli malsani erano stati focolaio di ben tre epidemie di colera. Ci volle la legge del Risanamento (nel 1885) per tentare di dare una sistemazione alla suburra dei «Quartieri».
Il progetto per la costruzione della Galleria Umberto I venne affidato all’ingegner Emmanuele Rocco e successivamente venne ampliato da Ernesto Di Mauro. Superfluo dire che nella progettazione ci si ispirò alla Galleria di Milano: anche quella di Napoli era a croce e aveva le copertura in ferro e vetro. Così come quella meneghina, la galleria di Napoli ambiva a diventare il salotto buono della città. I bar al suo interno non mancavano. La vicinanza del teatro san Carlo, del palazzo Reale, di Piazza del Plebiscito, costituivano chiavi di lettura architettonica e snodi urbanistici che dovevano garantire alla Galleria di diventare l’ombelico mondano della città. E così fu, grazie anche alla presenza del salone Margherita, che aggiungeva un pizzico di malizia e pepe con le sue chanteuse. Oggi la Galliera di Milano, grazie anche a un formidabile restauro avviato in prossimità di Expo 2015, è ancora più bella e chic di prima: le migliori griffe occupano le sue vetrine. Il ristorante Savini resta una meta modaiola. E, al suo interno, all’ultimo piano, trova posto l’albergo più chic della città: un sei stelle che garantisce alla facoltosa clientela un maggiordomo per ogni stanza.
E la Galleria di Napoli? È un suk mediorientale, con venditori ambulanti di ogni genere, ma senza il fascino dei mercati arabi. Ogni notte, gli angoli dei quattro archi di ingresso si trasformano nel solo Vespasiano del centro storico e in un dormitorio per sbandati e disperati. In alcuni bracci della galleria i ragazzini dei Quartieri organizzano partite di pallone. L’albero di Natale che un tempo occupava il fulcro della galleria durante le feste è caduto in disgrazia da un po’. Quattro anni fa, Salvatore Giordano, un ragazzino di 14 anni che passava in galleria un pomeriggio dei primi di luglio, venne ucciso da un pezzo di cornicione che si staccò venti metri sopra di lui e gli sfondò il cranio.
Cosa ci dice la storia di queste due Gallerie tanto simili quanto diverse? Che forse non basta l’abito a fare il monaco, che la sostanza a volte non corrisponde alla sua forma. Insomma, se il degrado nella gestione raggiunge abissi di questo tipo esiste innegabilmente una responsabilità politica, ma è indiscutibile che ci sia anche una responsabilità collettiva: non è il comune di Napoli (a cui certo non mancano colpe) che ordina ai bambini di giocare a pallone usando le vetrine dei negozi come porta; che favorisce la distruzione dell’abete; che invita a urinare sui muri; che spinge ad accamparsi sui pavimenti in marmo.
Ma come scrisse una volta Stanislaw Jerzy Lec, in una valanga nessun fiocco di neve si è mai sentito responsabile.