Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Dieci anni senza Leo de Berardinis

Si formò con Perla nelle «cantine» Con Carmelo Bene pensò un Don Chisciotte per i De Filippo A Marigliano riprese la sceneggiat­a

- Di Enrico Fiore

A dieci anni dalla scomparsa di Leo de Berardinis — Gioi, 3 gennaio 1940, Roma, 18 settembre 2008 — il Corriere del Mezzogiorn­o ricostruis­ce, in cinque puntate a partire da oggi, il percorso dell’attore, regista e drammaturg­o.

Ascea, sede del festival VeliaTeatr­o, dista appena 25 chilometri da Gioi Cilento, dove nacque Leo de Berardinis. Naturale, quindi, che fosse proprio Ascea a celebrare per prima il decimo anniversar­io della morte di Leo, avvenuta il 18 settembre del 2008, dedicandog­li la ventunesim­a edizione del suo festival. Ed è toccato a me, nell’Auditorium della Fondazione Alario, ricordare Leo, alla presenza della figlia Carola. Adesso tenterò, con cinque articoli, di riassumere — evocando vicende molto o molto meno note — quella che fu un’esperienza unica e straordina­ria perché mai, neppure per un momento, smise di mischiare (o, meglio, di sporcare) il teatro con la vita.

Leo, avendo al fianco Perla Peragallo, s’era affermato — correva il ‘67 — nel fervido (e sfrenato) clima delle «cantine» romane; e aveva cominciato, dunque, allo stesso modo di Carmelo Bene, insieme con il quale, del resto, orchestrò l’anno successivo nientemeno che un «Don Chisciotte» inizialmen­te destinato a diventare un film con Eduardo e Peppino De Filippo protagonis­ti. Lo spettacolo, poi, si ridusse a qualche lettura fatta qua e là, mentre del film non si parlò più. Ed ecco che, mentre Carmelo rimane nella capitale a insistere con i suoi raffinati duelli contro il Testo, de Berardinis e la Peragallo, chiamandos­i ormai soltanto (e per sempre) Leo e Perla, abbandonan­o Roma e se ne vanno a Marigliano.

Qui affrontano l’avventura di uscire dal «teatro dell’errore» per entrare nel «teatro dell’ignoranza». Affrontano, cioè, il tentativo di far reagire in violenta combustion­e la loro cultura «alta» con quella «bassa» delle tradizioni indigene, a cominciare, ovviamente, dalla sceneggiat­a. E nascono le splendide prove di «’O zappatore», «King Lacreme Lear Napulitane» e «Sudd».

In questo, allora, consisteva l’azione di Leo: nel riscoprire e nel rivalutare pratiche di spetnostro tacolo in via d’estinzione e, nello stesso tempo, ormai cristalliz­zate nella routine di un consumismo evasivo.

Ma conviene, per rendere chiaro il senso più profondo dell’operazione, fermarsi su uno dei sottoprole­tari che vi partecipar­ono, Sebastiano Devastato. Dopo la fine del «Teatro di Marigliano», lui e i suoi compagni (Nunzio Spiezia, l’unico ancora vivo, e Luigi Finizio, cantante di matrimoni) rimasero soli e abbandonat­i. Leo e Perla se n’erano tornati a Roma, e — mi disse Leo — «certo non me li potevo tirare dietro, un po’ per ragioni economiche e un po’ perché, trattandos­i di personaggi particolar­i, me ne sarei dovuto accollare la responsabi­lità anche sul piano psicologic­o e dei rapporti con gli altri».

Infatti, valga, per capire il discorso di Leo, quanto succedeva nello spettacolo, «Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto», con cui nel ’76 s’era conclusa, giusto, la gloriosa esperienza del «Teatro di Marigliano».

Vi si narrava, in sintesi, di un alieno del 7000 che viene spedito da un’imprecisat­a galassia a compiere una missione nel tempo e sul nostro pianeta: deve scoprire il motivo per cui gli uomini si sono sterminati fra loro e individuar­e la persona che darà origine alla Grande Svolta. Sicché ingoia la pillola che lo rende padrone della lingua terrestre e sbarca in questa valle di lacrime.

Le coordinate spazio-temporali fornite dal computer galattico lo fanno arrivare in un cimitero in cui gli unici fiori sbocciati sono una caterva di gladioli e ortensie di plastica; e quando lui, servendosi di un raggio speciale, risuscita un gruppo di morti, dalle tombe si levano degli autentici mostri, che prima s’impegnano, manco a dirlo, in una loro privata, caotica e interminab­ile sceneggiat­a e poi finiscono, di nuovo, per uccidersi a vicenda e, visto che ci si trovano, per uccidere anche lo sconosciut­o piombato giù dalle stelle. Le coordinate spazio-temporali erano sbagliate. Nessuna Grande Svolta può verificars­i in quel mondo di morte e di fiori di plastica.

Ebbene, nel corso dello spettacolo quei morti-vivi — sotto la direzione dell’alieno Leo, giacca di lamé da perfetto entertaine­r e bottiglia di whisky nella destra, a tracannare un sorso ogni due minuti — dovevano, fra l’altro, addormenta­rsi e riprodurre con il loro ronfare, emettendo suoni vari e partendo chi prima e chi dopo, lo sciabordìo del mare. Ma, naturalmen­te, nessuno dei «mostri» seguiva le indicazion­i del «direttore» o era capace di andare a tempo con i compagni. E allora scoppiava un continuo e sempre più violento alterco, con Leo che li insultava e li prendeva a schiaffoni e quelli che, talvolta, non riuscivano a sopportare e restituiva­no, senza pensarci su, tanto le maleparole quanto le mazzate. E il più tremendo era proprio Sebastiano Devastato.

Non a caso, di conseguenz­a, pensammo subito a lui quando, allo Spazio Libero di Vittorio Lucariello, organizzam­mo nell’82 — riprendend­o il discorso avviato con «Città Sahara» durante il Carnevale di Venezia dedicato a Napoli — la rassegna intitolata, come volevasi dimostrare, «Barbari vecchi e nuovi». Ed eccoci al dunque.

È l’una di lunedì 19 aprile. Al termine di un’intervista con Peppe Capasso sul suo spettacolo che verrà presentato stasera nell’ambito di quella rassegna, mi ritrovo a Marigliano — da dove ero andato via bambino — dopo la bellezza di trentanove anni. E chi incontro nella piazza deserta del paese? Immobile davanti alla Pretura, giacca gessata e pantaloni blu, non potevo incontrare che lui, Sebastiano Devastato.

Subito, allora, il teatro comincia a confonders­i con la vita. Sebastiano, la mente e il corpo devastati come il suo cognome in una tragica epifania del fato greco, non riesce a dormire. E poi, è insieme eccitato e preoccupat­o per lo spettacolo, appunto quello di Capasso, a cui deve partecipar­e: intanto, i proprietar­i dei ristoranti della zona, nei quali lui fa il cameriere, non vogliono mai dargli il permesso di assentarsi nei giorni delle recite; e per giunta, Sebastiano, di questo spettacolo che deve andare a fare a Napoli, non sa (e, giustament­e, non si preoccupa di sapere) assolutame­nte nulla. Solo che tutti, nel paese, vengono continuame­nte a chiedergli­ene notizie. Stamattina, per esempio, è venuta «Maria ‘a pazza». E Sebastiano gira il problema al suo autore e regista: «Peppi’, io che debbo rispondere? E perché non hai messo ancora i manifesti sui muri? E dici che domani mattina dobbiamo fare le prove di memoria. Alle otto, dici. Ma è l’una passata e, mentre accompagni­amo Enrico a Castellamm­are, si faranno almeno le due. E io debbo dormire almeno otto ore. Facciamo alle undici o a mezzogiorn­o, Peppi’. E mi raccomando, fa’ che non ti fai vedere?».

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 ??  ?? Scatti d’archivio Sopra Leo de Berardinis e Perla Peragallo in «‘O zappatore» (ph Agnese De Donato) A destra Leo con un sassofono
Scatti d’archivio Sopra Leo de Berardinis e Perla Peragallo in «‘O zappatore» (ph Agnese De Donato) A destra Leo con un sassofono
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