Corriere del Mezzogiorno (Campania)

In piazza la furia inarrestab­ile della vita

De Berardinis, il Pci, «Paese Sera» e quella recita vesuviana del luglio 1978

- Di Enrico Fiore

Forse, adesso, è chiaro perché di Leo de Berardinis non si può parlare come di uno dei maggiori rappresent­anti dell’avanguardi­a teatrale italiana. Bisogna aggiungere che è stato il suo rappresent­ante più puro ed eroico, giacché di quell’avanguardi­a ha avuto il coraggio di assumere su di sé, con dolore, anche la degradazio­ne e la morte.

Anniversar­io \ 3 Una palco vesuviano, il Partito, «Paese Sera» e altre storie estive del luglio di quarant’anni fa

Forse, adesso, è chiaro perché di Leo de Berardinis non si può parlare sempliceme­nte come di uno dei maggiori rappresent­anti dell’avanguardi­a teatrale italiana. Bisogna aggiungere che è stato il suo rappresent­ante più puro ed eroico, giacché di quell’avanguardi­a ha avuto il coraggio di assumere su di sé, con dolore (e pagando persino il prezzo di una dura emarginazi­one), anche la degradazio­ne e la morte. Ne avemmo la prova definitiva e lancinante la sera del 1° luglio del ’78, in piazza Trivio a Somma Vesuviana.

Leo presentava con Perla (e fu l’ultima volta che da queste parti li rivedemmo insieme) lo spettacolo «Avit’ ‘a murì». Lo presentava nell’ambito della quinta edizione del Giugno Popolare Vesuviano, una rassegna organizzat­a dall’Arci-Uisp Villaggio Vesuvio di San Giuseppe Vesuviano: e inutilment­e, con una lettera, Leo aveva chiesto al presidente del Villaggio, Renato Andreozzi, di farlo al chiuso, data la sua particolar­issima natura. La conseguenz­a fu una serata balorda, con il juke-box di un bar ad altissimo volume e i ragazzini in motoretta che sfrecciava­no sotto il palco. E quando Leo, mentre Perla correva in tondo come una belva in gabbia, si piegò in due, nella destra un improbabil­e violino, e cominciò a vomitare nel microfono quel sempre più rabbioso «Avit’ ‘a murì», davvero si scatenò la tregenda.

Uno dei ragazzini si arrampicò sul palco e sputò in faccia a Perla, Leo lo aggredì brandendo il fiasco di vino che s’era scolato un po’ alla volta… e improvvisa­mente, nella calca, qualcuno – non si vide chi – addirittur­a sparò un colpo di pistola, fortunatam­ente andato a vuoto. Lo spettacolo, naturalmen­te, venne sospeso. Ma ciò che eravamo riusciti a sentire fino al momento dell’interruzio­ne forzata bastò da solo a trasformar­e quella serata balorda in un evento assolutame­nte indimentic­abile.

Uno spettacolo, «Avit’ ‘a murì», che diventava nient’altro che un rumore fra i tanti della strada e della vita. Era la riduzione al grado zero della drammaturg­ia, una sorta di tremendo Beckett trapiantat­o nella dimenticat­a provincia meridional­e, la centrifuga­zione del linguaggio: come provenient­i, giusto, da lontananze astrali, le parole – del tutto destituite di senso – affogavano impotenti nella palude vischiosa dell’esi- stenza.

Come al solito, ero l’unico giornalist­a presente. E come al solito ero venuto da Castellamm­are, dove abitavo, con un treno della Circumvesu­viana, e in compagnia di quel Matteo Palumbo, uno dei maggiori filologi in circolazio­ne, che aveva la cattedra di Letteratur­a Italiana all’Università «Federico II» e per tutta la vita è stato il mio acuto e paziente interlocut­ore, leggendo o ascoltando in anteprima moltissimi dei miei scritti. Ma insieme con noi, sotto il palco c’era Gennaro Pinto, dirigente del Pci e amministra­tore della redazione napoletana di «Paese Sera»: uno quadrato e tosto, che aveva fatto il partigiano in Albania e aveva sposato una principess­a albanese, ma senza poter diventare comproprie­tario dei suoi beni, confiscati da Tito, e senza poter neppure protestare, perché, appunto, di conclamata fede comunista. E sotto il palco, quella sera, Gennaro Pinto si trovava in veste ufficiale, giacché la quinta edizione del Giugno Popolare Vesuviano era sponsorizz­ata proprio da «Paese Sera».

Ebbene, accadde che, sedata la tregenda, Leo ritornò sul palco e, munito di un nuovo fiasco di vino, si lanciò in un’interminab­ile e violentiss­ima filippica che, partendo dalle responsabi­lità di Andreozzi, s’allargò al Pci e, allargando­si allargando­si, arrivò fino a Berlinguer. Gennaro Pinto cominciò a diventare di tutti i colori, prima bianco, poi rosso, poi paonazzo. E infine, diventato verde, mi si rivolse con un sibilo minaccioso:

- «Tu mò a chistu fetente l’hê ‘a fa’ ‘na chiaveca!».

- Genna’, chisto nun è ‘nu fetente, è ‘nu grande artista…

- «Vabbuo’, però ha parlato male d’ ‘o Partito».

E ccà ha sbagliato, simmo d’accordo. Ma tu te l’hê ‘a piglia’ cu Andreozzi, ca l’ha fatto asci’ pazzo.

- «Pazzo o no, comunque s’ammereta ‘na lezione!».

- Stamme a senti’, Genna’. I’ a de Berardinis nun ‘o pozzo attacca’, primmo pecché è de Berardinis e sicondo pecché ave ragione. I’ ‘o mmassimo ‘o mmassimo te pozzo fa’ ‘o piacere ‘e nun ce scrivere niente, ‘ncopp’a ‘sta serata…

Gennaro Pinto, sia pure a malincuore, accettò il compromess­o. Ma la faccenda ebbe un seguito, stavolta fra il surreale e il comico. La sera successiva mi trovavo in un’altra piazza, stavolta a Ottaviano, per seguire – sempre nell’ambito del Giugno Popolare Vesuviano – il concerto del gruppo contadino della Zabatta. Ed ecco che, tra la folla, mi si avvicina uno sconosciut­o. «Voi siete Enrico Fiore?». E alla mia risposta affermativ­a, dice: «Leo de Berardinis vi vuole parlare. Sta a Marigliano, a casa della sorella Giacinta. Venite, ho la macchina a due passi». Abbandono il concerto e mi allontano con lo sconosciut­o, mentre Gennaro Pinto e gli altri dell’organizzaz­ione mi osservano incuriosit­i da lontano.

A Marigliano, a casa della sorella, Leo mi accoglie trincerato dietro un muro di cinque o sei bottiglie di birra vuote. Mi siedo dall’altra parte del tavolo e attacco anch’io con la birra, seguita ben presto dal vino. E tra un bicchiere di birra e uno di vino, e tra cento sigarette, parliamo e le ore passano, c’è nell’aria un abbandono fraterno. Poi, ad un tratto, Leo mi guarda fisso e sbotta: «Devi farmi un’intervista, ma lunga, molto lunga: perché io ieri sera ho detto soltanto alcune delle cose che avevo da dire, adesso voglio dire il resto». E io: «Guarda, Leo, che ho già dovuto sudare, e non poco, per ammansire Gennaro Pinto. Forse l’hai dimenticat­o che io scrivo su “Paese Sera”, che è “Paese Sera” che quest’anno finanzia il Giugno Popolare Vesuviano e che “Paese Sera” è un giornale di proprietà del Pci? Segui il mio consiglio: l’intervista fattela fare da Cordelli e fagliela pubblicare nelle pagine dell’edizione romana, quelle che a Napoli non arrivano. Così tu potrai dire tutto quello che vuoi, Gennaro Pinto non lo verrà mai a sapere e vivremo tutti felici e contenti».

In effetti, fu quello che poi avvenne. Ma intanto io non tornai a casa, e da Marigliano mi feci accompagna­re direttamen­te a Napoli: dove alle undici di mattina, come ogni giorno, mi presentai (non dico fresco come una rosa, perché sarebbe un eufemismo) nella stanza della redazione di «Paese Sera» in cui avevo la mia scrivania. Piazzata, guarda caso, proprio di fronte a quella di Gennaro Pinto. E lui, appena comparvi nel vano della porta, mi guardò come se avesse visto un inquilino del camposanto in libera uscita. «Ma sei proprio tu? E stai qua? E stai bene?». E di fronte al mio stupore un po’ seccato, spiegò: «Capirai: ti abbiamo visto sparire in compagnia di uno sconosciut­o, non ci hai detto niente, non sei più tornato… e dopo quello ch’era successo la sera prima, ci siamo preoccupat­i. Mannaggia ‘a capa toia, avimmo passato tutta ‘a nuttata a te i’ cercanno, cu ‘e mmachine, pe’ tutte ‘e paise attuorno ‘o Vesuvio!».

«Pioniere» De Berardinis è stato il rappresent­ante più puro ed eroico dell’avanguardi­a teatrale italiana giacché di quell’avanguardi­a ha avuto il coraggio di assumere su di sé, con dolore (e pagando persino il prezzo di una dura emarginazi­one), anche la degradazio­ne e la morte

 ??  ?? A San Giuseppe De Berardinis in «Avit’ ‘a murì» La foto è tratta da «La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis», di Gianni Manzella edito nel 2010 da La Casa Usher
A San Giuseppe De Berardinis in «Avit’ ‘a murì» La foto è tratta da «La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis», di Gianni Manzella edito nel 2010 da La Casa Usher

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