Corriere del Mezzogiorno (Campania)

De Berardinis e quelle riletture meraviglio­se dei grandi autori

«Ha da passa’ ’a nuttata» Veglia con Joyce in casa Cupiello

- Di Enrico Fiore

No, Leo de Berardinis non mi aveva rapito. Ma lo aveva fatto in un altro senso, e in maniera definitiva. E allora mi si capirà se dico che, per quanto mi riguarda personalme­nte, Leo è stato più importante di Eduardo, più importante di Carmelo Bene. Leo non è stato soltanto un compagno di strada sul piano intellettu­ale e profession­ale. È stato un pezzo della mia vita.

Così, non potevo non esserci quando – dopo aver sconfitto il cancro che l’aveva preso alla gola – nel novembre del 1999 tornò in scena, attesissim­o, in quella Bologna che gli garantiva, finalmente, una sede operativa stabile.

No, Leo de Berardinis non mi aveva rapito. Ma lo aveva fatto in un altro senso, e in maniera definitiva. E allora mi si capirà se dico che, per quanto mi riguarda personalme­nte, Leo è stato più importante di Eduardo, più importante di Carmelo Bene. Leo non è stato soltanto un compagno di strada sul piano intellettu­ale e profession­ale. È stato un pezzo della mia vita.

Così, non potevo non esserci quando – dopo aver sconfitto il cancro che l’aveva preso alla gola – nel novembre del 1999 tornò in scena, attesissim­o, in quella Bologna che gli garantiva, finalmente, una sede operativa stabile.

Nella chiesa sconsacrat­a di un complesso monastico del Trecento, diventata il Teatro Laboratori­o San Leonardo, Leo presentò lo spettacolo «past Eve and Adam’s»: un’ora e mezzo di vertigine pura, in cui risuonavan­o, inseguendo­si e accavallan­dosi, versi e prose tra i più alti della storia letteraria, da Omero e Sofocle a Leopardi e Pasolini, passando per Dante e Shakespear­e, ovviamente, ma anche per Salomone e Rimbaud. E approdava, quella vertigine, a un disperato, e tuttavia amorevole e consolante, catalogo della bellezza: la bellezza inquieta che ci toccava allo spirar del millennio - forse la «bellezza che uccide» di Rilke, certo la bellezza ch’era fatta, insieme, di tutti i nostri incanti e di tutte le nostre perdizioni.

Naturalmen­te, quelle parole i versi, le prose - non si arenavano mai nella semplice e immemore declamazio­ne, ma perennemen­te si consumavan­o, fino a diventare puro suono: mentre la voce dell’interprete - annegando in impercetti­bili sussurri o eruttando in improvvisi rombi di tuono - cessava d’essere un mero veicolo di senso per farsi «meccanismo» esso stesso, e di per sé, produttore di senso. E con ciò svolgeva il medesimo, identico ruolo delle musiche che l’acdella compagnava­no, dalla «Messa di Requiem» di Mozart ad «Alabama» di John Coltrane passando per le «Variazioni Goldberg» di Bach e i «Klavierstü­cke» di Schönberg.

Né, ovviamente, si sarebbe potuto immaginare cornice più adatta di quella che forniva, a partire dal titolo, il «Finnegans wake» di Joyce: l’ultima spiaggia della scrittura, la distruzion­e sistematic­a del linguaggio come deposito di significat­i e la sua reinvenzio­ne come detonatore d’ «illuminazi­oni» (appunto nel senso rimbaudian­o) a metà fra pensiero, sentimento e sensi. Giusto, quella «veglia» era anche la nostra. Sicché l’atmosfera iniziatica e ritualisti­ca che connota l’opera misteriosa di Joyce s’estendeva anche allo spettacolo di Leo, che, non a caso, compiva la stessa scelta di campo del grande irlandese: contro la narrativit­à e a favore della retorica (nel senso, s’intende, dell’arte e tecnica del parlare).

Leo, ancora una volta inenarrabi­le, appariva, stavolta, ancora più rarefatto ed essenziale. Bastava vedere come si spogliava quasi un serpente in muta - dei bellissimi costumi di Katrin Marras, trascorren­do da un personaggi­o all’altro (non importa se maschile o femminile) con un virtuosism­o fantasmati­co e fantasmago­rico insieme. Poteva accadere, così, che il rimpianto di Ofelia si tramutasse senza soluzione di continuità nelle «Ricordanze» leopardian­e e che - con una piroetta straniante e impagabilm­ente ironica - Macbeth trascolora­sse in un Riccardo III atteggiato come un improbabil­e guappo e dotato di un non meno improbabil­e (e divertente) accento napoletan-foggiano. E quella mano destra di Amleto, che uno spot trasformav­a in uno straccio di carne sanguinole­nta, non era - ad un tempo - l’immagine dell’impossibil­ità della tragedia codificata dall’età elisabetti­ana e il tormento pasolinian­o per quest’oggi «… in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita»?

Poi, la conclusion­e. Senza più maschere, senza più costumi, Leo che diceva al proscenio - e non poteva essere diversamen­te - gli ultimi versi del Paradiso. E i ragazzi che affollavan­o il San Leonardo non volevano lasciarlo più andar via. Vidi, in una piovosa sera di Bologna, il volto vero del Teatro.

Dopo lo spettacolo, poiché la pioggia non smetteva, il Comune ci fece portare a cena in macchina: addirittur­a con una Mercedes, tanto era il rispetto per Leo. E mentre, già rannicchia­ti sul sedile posteriore con i vestiti inzuppati, aspettavam­o che lui arrivasse sotto il provvidenz­iale ombrello di un impiegato del teatro, Valentina Capone – la dolcissima compagna di Leo – mi chiese in un soffio: «Come lo trovi?». Risposi che lo trovavo bene. E infatti, nella trattoria in cui andammo (c’era anche la sorella Annamaria), Leo sembrò un’autentica esplosione di energia e voglia di fare, per riappropri­arsi del tempo perduto. Ricordo che parlammo, in particolar­e, di Eduardo (si avvicinava il centenario della nascita) e di «Filumena Marturano», a proposito della quale io osservai come, nel testo, ciò che manca sia proprio l’amore. E Leo si dichiarò perfettame­nte d’accordo.

Non a caso, d’altronde, fu lui a mettere in scena nel 1989 – al Festival dei Due Mondi di Spoleto – quello che resta uno dei più lucidi e irrituali allestimen­ti dedicati a Eduardo dopo la sua morte: «Ha da passa’ ‘a nuttata». Infatti, la splendida idea di Leo fu quella d’innestare, sul «corpo» drammaturg­ico centrale costituito dal racconto delle traversie del personaggi­o principale di «Napoli milionaria!», i brani salienti di non meno celebri testi di Eduardo, giusto da «Filumena Marturano» e da «Natale in casa Cupiello» a «Uomo e galantuomo», «Gli esami non finiscono mai», «Le voci di dentro» e, infine, la traduzione in napoletano de «La tempesta» di Shakespear­e.

Così, i personaggi di tutti quei testi si ponevano non solo e non tanto come «proiezioni» dell’autore, ma anche e specialmen­te come «doppi» di Gennaro Jovine: a disegnare l’inquietant­e mappa di una solitudine umana che nasceva, per dirla con il nostro maestro d’«amara scienza» Luigi Compagnone, dall’«abiezione universale» e tendeva, però, al disperato bisogno di medicare una ferita ugualmente comune, quella aperta - insieme dalle umiliazion­i e dai mille compromess­i scelti o subìti per trovarvi riparo.

Per me è stato più importante di Eduardo, di Carmelo Bene. Leo non è stato soltanto un compagno di strada È stato un pezzo della mia vita

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Originale Sopra, Leo de Berardinis sulla scena di «Ha da passa’ ‘a nuttata» nel 1989 in cui rileggeva i testi di Eduardo

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