Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Da Sorrento a Giakarta in cerca di pericolo
Adesso suo cugino Fabrizio era qui. Qui significava sotto il cielo della costiera, con il borbottio di gommoni e motobarche che si sollevava fino a questa terrazza sul porticciolo di Piano. Suo cugino era qui, si disse Emanuela. Sano, integro: l’esatto opposto del fantasma che Emanuela aveva creduto di dover piangere settimane prima, quando di lui riceveva solo notizie con il contagocce.
Aveva corso una brutta avventura, Fabrizio, in quel vicolo di Giakarta: un’aggressione a scopo di rapina. Se n’erano interessati i media nazionali con il loro turbine di frasi fatte, prima di passare volubilmente oltre (altre notizie incalzano e scalzano le precedenti, fino a tombarle nel dimenticatoio). Suo cugino si era trovato in bilico fra la vita e la morte. Per fortuna, adesso il protagonista di quella brutta avventura, rimessosi in forze e rimpatriato dal Ministero per la convalescenza, sorseggiava il suo tè freddo davanti a lei. E davanti ad una veduta che già da ragazzino lo stomacava per la sua bellezza cartolinesca, facile, risaputa. Niente da fare, si disse Emanuela: perfino da redivivo il cugino non riusciva a camuffare il suo tedio per quello scorcio di mare; per quello stucchevole azzurro col Vesuvio in secondo piano che, viceversa, estasiava tutto il loro parentado (ragione supplementare per detestarlo, secondo Fabrizio). Emanuela, trangugiando le ultime due dita di Coca Cola, si sentì quasi in colpa. L’antico complesso di inferiorità verso Fabrizio, riacutizzatosi, le rammentava che a lei quello specchio d’acqua così turistico e trafficato non solo piaceva, ma metteva allegria. Come il resto della parentela locale anche lei, dopo essersi tuffata, riemergeva entusiasta e si beava, con le ciglia stillanti, di quel costone, delle spaccature nell’ocra cangiante del tufo.
«Lo so: ti sto annoiando. Con gli anni, invece di migliorare, sotto quest’aspetto peggioro».
Il timbro di Fabrizio – basso, sempre leggermente ingolato – l’aveva riscossa.
«Ma cosa posso farci? Io sono noioso di natura».
Da sempre Fabrizio invidiava la santa semplicità e l’estroversione di sua cugina. Emanuela, per tutta risposta, sgranò gli occhi: questa era veramente un’eresia! Fabrizio, quelle rare volte che si rifaceva vivo con lei, rappresentava una miniera di aneddoti, di storie super-affascinanti sui Paesi dove il Ministero lo dislocava... Perciò insorse.
«Ma che dici? Tu sei il mio fornitore di storie dal mondo! Io, casomai, sono piatta come una pizza, invece... Non mi muovo mai. Sempre immobilizzata qui».
«Qui al caffè?». «Quanto sei stupido...Qui a Piano. Sempre legata, mani e piedi, a quel maledetto bed and breakfast».
Benedetto e benemerito, in realtà, visto che le procacciava di che vivere in modo decoroso.
«Non mi dispiacerebbe rivederlo». Fabrizio l’aveva detto non per compiacerla. Stavolta, rientrato fra gli uomini dopo il coma, avvertiva un sentimento praticamente sconosciuto: la nostalgia. Non il rimpianto, certo, quanto un richiamo malinconico congeniale alla sua indole profonda (quel temperamento che lui aveva imparato a domare). Il rimpianto addirittura per la palazzina: chi l’avrebbe mai detto, fino a qualche tempo fa? Quel palazzotto settecentesco senza pretese nobiliari, né meriti estetici... Ogni secolo aveva aggiunto una sopraelevazione, cosicché l’insieme risultava privo di carattere e di coerenza architettonica. Eppure Emanuela, mentre ora risalivano verso quella facciata sbiadita a cui lei si era assuefatta, non poté evitare che il cuore iniziasse a tambureggiare. Era emozionata non per se stessa, naturalmente, ma per Fabrizio, immedesimandosi in lui. Era lì, del resto, che avevano vissuto le loro estati infantili prima e, poi, adolescenziali. Quando la famiglia era composta tutta da vivi, forse non abbastanza felici quanto il semplice esistere meritava.
«Solo che non ho le chiavi dietro», mormorò contrita all’indirizzo di suo cugino e del suo accenno di smorfia indispettita.
«Mi toccherà citofonare agli inquilini», Emanuela, desiderosa di rimediare e mostrarsi all’altezza. Fabrizio l’aveva sempre intimidita con quel portamento impeccabile che ostentava come una divisa, fin da ragazzino (e lo predestinava, per stile e autocontrollo, alla carriera consolare). Emanuela tuttavia, a differenza degli altri familiari, intuiva cosa si celasse dietro quella maschera di compostezza e ottime maniere. Un vuoto doloroso, capace di renderli più fratelli che semplici cugini in primo grado.
«Non è così necessario entrare», Fabrizio, dopo essersi guardato attorno, «mi bastava dare un’occhiata da fuori. Non so nemmeno io il perché». «Invece lo sai benissimo il perché», pensò Emanuela, «Solo che non vuoi confessarlo nemmeno a te stesso».
Così, punta dalla noncuranza di Fabrizio, Emanuela premette un pulsante a caso del citofono, determinata a farsi aprire. Il primo tentativo – con un cicalino che riecheggiava in lontananza – andò a vuoto. Al secondo colpo, Fabrizio vide la cugina parlottare con la bocca accostata alla pulsantiera.
«Che senso ha tutto questo?», si chiese lui. Quella località della costiera, dov’era nato una quarantina d’anni prima, gli appariva sempre più insignificante ad ogni ritorno. Rio, Rabat, Giakarta - così come le altre sedi dove aveva avuto modo di ruotare negli anni – gli sembravano luoghi immersi nelle trasformazioni dell’ Economiamondo. Sant’Agnello ne pareva solo lambito: una specie di porticciolo difeso, contro i cambiamenti, da un frangiflutti insuperabile che riparava e soffocava. Si riebbe al fremito elettrico che socchiudeva il portoncino, mentre Emanuela sgusciava dentro. Dentro: all’ombra di questo androne dalla volta affrescata, l’unica pretensione dell’edificio. Tutto il resto era immutato: l’albero di fico, il pozzo inattivo da settant’anni, perfino i grossi vasi di ortensie. Gli occhi verdoni di Emanuela conficcati nei suoi: ecco, quelli erano nuovi. Nuovi in modo preoccupante. Qualcosa che cambiava l’assetto del cortile e del loro incontro.
«Te l’avranno già chiesto, penso».
Avvertirono entrambi una vibrazione dolorosa, nella voce di lei.
«Perché ti sei cacciato in quel vicolo? Solo e di notte?».
Questo rendeva Fabrizio superbo in modo quasi luciferino: «Non ero mica solo. Ero in compagnia dei miei carnefici».
Il mento di Emanuela tremò: «che significa in compagnia?».
«Ah, questa era la parte magnifica!», pensò Fabrizio. Scegliersi la propria morte e i propri uccisori. Questo era stato un privilegio. Peccato si fosse risolto tutto così: in un nulla di fatto.