Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Non solo meridionale La questione è napoletana
Si tratta di una definizione appropriata ma spesso ignorata dalla letteratura sudista
Nella letteratura meridionalista la locuzione «questione napoletana» non è frequente. Ma ciò non significa che il termine «questione» non sia appropriato. Un meridionalista come Francesco Compagna lo usava consapevole che il perdurante ritardo di Napoli sulla strada della modernizzazione e dello sviluppo rappresenta una grande questione dell’Italia unita. Il caso atipico di una vecchia capitale europea che, in un arco di tempo secolare, non riesce a trasformarsi in grande città dotata di dinamiche funzioni metropolitane.
Sotto la spinta della cultura nittiana, fermamente attestata sulla necessità di praticare la «terapia della industrializzazione», l’area napoletana ha compiuto avanzamenti significativi in termini di economia industriale; mai però raggiungendo la cifra di fattore di trascinamento di un organico processo di sviluppo. Sono diversi gli indicatori che danno conto di questo stato di cose: nella realtà napoletana persiste un ritardo economico-sociale e civile, in un nesso di reciproco condizionamento non facile da rimuovere. L’aspetto più drammatico sta in una struttura sociale che mostra uno scarso grado di mobilità, come dimostra la persistenza di vaste sacche di sottoproletariato in una misura che non ha riscontri nella Europa occidentale.
Se questi sono i dati di fondo della «questione napoletana», una prospettiva di cambiamento strutturale può essere generata, in un orizzonte temporale accettabile, solo da una strategia di sviluppo di lungo respiro che veda operare di concerto Stato, Regione e Città metropolitana. Questo dovrebbe essere un punto fermo del dibattito politico e culturale cittadino, idea guida per mantenere aperta la possibilità di un rinnovamento politico-amministrativo.
Nell’attuale scenario napoletano è fin troppo chiaro che il lato incomparabilmente più debole è costituito dalla giunta municipale targata de Magiporti stris , un sindaco nel cui linguaggio si ritrovano tutti i luoghi comuni della sottocultura populistica. In carica da sette anni (un tempo medio-lungo che può cambiare il ritmo dello sviluppo) l’amministrazione comunale non ha prodotto nessuna iniziativa di rilievo strategico, ma è venuta meno anche sul piano della ordinaria gestione cittadina: servizi pubblici inefficienti o fuori controllo, risorse inutilizzate, progetti isolati di riassetto urbano incompatibili con la salvaguardia dei valori storico-ambientali della città ( è il caso dell’intervento su via Partenope), rap- con le altre istituzioni mai veramente collaborativi.
Nel clima politico-culturale indotto dal comportamento del sindaco ex magistrato si è disperso l’aggancio alle lezioni più serie elaborate dal meridionalismo sui nodi che frenano l’avanzamento dell’area napoletana verso uno stadio di sviluppo di cifra europea.
Una critica politica che non abbia perduto il necessario accento realistico deve segnalare il diverso indirizzo che informa l’attività della Regione governata da un personaggio come Vincenzo De Luca. Troppo spesso tra governatore e sindaco si accendono polemiche che sono al limite della normalità istituzionale, ed è probabile che questo sia il motivo per cui l’opinione pubblica in genere dura fatica a distinguere il profilo politico e culturale di De Luca rispetto a de Magistris. Ma c’è una differenza che va tenuta in conto, dal momento che l’attivismo politico-amministrativo di De Luca ha conseguito risultati che appaiono non trascurabili sul terreno dello sviluppo economico e sociale.
Un dato nuovo è il trend di crescita dell’economia campana che supera, a partire del 2017, la media nazionale. È un esito delle politiche messe in atto dalla Regione con un pacchetto di misure articolate che l’assessore al Lavoro Sonia Palmieri definisce «modello Campania». È un risultato incoraggiante che va monitorato con attenzione per verificare se può avere, nel medio periodo, una incidenza strutturale. In questo caso ne trarrebbe vantaggi anche l’area napoletana, che però mantiene caratteristiche specifiche che vanno affrontate necessariamente con un organico piano di sviluppo.
C’è da chiedersi quale sarà effettivamente la politica meridionalista del Governo, che finora non ha fornito indicazioni del tutto lineari, tra il linguaggio propagandistico di un Di Maio e le proposizioni alquanto più sobrie del ministro Barbara Lezzi. Ci si trova di fronte al problema di incrementare in tempi certi gli investimenti per lo sviluppo recuperando le risorse dei fondi europei inutilizzati e quelle provenienti dalla spesa ordinaria dei diversi dicasteri. Ma non finisce qui, perché Regioni e Comuni del Sud sono in ritardo con la progettazione di interventi che abbiano una effettiva portata strategica. Il rischio è che, senza una rigorosa programmazione, continui l’andazzo di finanziare progetti di impatto assai minore, di interesse localistico o di semplice solidarietà sociale. È incontestabile, invece, che la condizione meridionale non potrebbe sopportare un’altra legislatura di piccolo cabotaggio politico-economico, lasciando insoddisfatta la esigenza di accelerare e stabilizzare il ritmo di sviluppo. È un serio interrogativo per il ministro Lezzi, che alla ripresa autunnale non dovrebbe passare sotto silenzio.