Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Via Caravaggio, la strage e il mistero dei reperti distrutti

Distrutti cicche di sigarette e uno strofinacc­io sporco di sangue. I familiari delle vittime fanno causa allo Stato

- Di Enzo La Penna

C’era una possibilit­à, magari una su mille, di risolvere il giallo 43 anni dopo. Quello di Via Caravaggio. Ma un altro mistero si è aggiunto al mistero.

C’era ancora una possibilit­à, magari una su mille, di risolvere il giallo 43 anni dopo. Troppo tardi forse per fare giustizia, perché l’assassino potrebbe ormai essere scomparso insieme con i suoi fantasmi, ma ancora in tempo almeno per scoprire la verità e placare il sangue di tre innocenti ammazzati all’ora di cena nella loro tranquilla casa di un tranquillo quartiere borghese.

Serviva dare un nome e un volto a quei due profili genetici, classifica­ti dalla polizia scientific­a come «ignoto 1» e «ignoto 2» dopo l’esame dei reperti riportati alla luce da uno scantinato del vecchio Palazzo di Giustizia, e si sarebbe potuto svelare il mistero sul massacro avvenuto la sera del 30 ottobre 1975 in un appartamen­to di via Caravaggio dove furono uccisi Domenico Santangelo, 54 anni capitano di marina mercantile in pensione, la moglie Gemma Cenname, ostetrica di 50 anni, e Angela, 19 anni, la figlia di Santangelo nata da un precedente matrimonio. Certo, una scommessa ardita, ma i familiari delle vittime avevano deciso comunque di provarci dando incarico a un penalista e a un consulente tecnico perché non si lasciasse nulla di intentato. Ma quando l’avvocato Gennaro De Falco e il generale Luciano Garofano, ex comandante del Ris di Parma, in forza delle autorizzaz­ioni firmate da ben due giudici per le indagini preliminar­i, si rivolsero all’ufficio reperti del Tribunale per far eseguire nuovi esami su uno strofinacc­io insanguina­to e alcuni mozziconi delle sigarette che gli assassini avevano fumato nella casa della strage, ricevetter­o una risposta raggelante: «Quei reperti sono stati distrutti, bisognava fare spazio».

La soppressio­ne — fu precisato da un cancellier­e — era avvenuta nell’ambito di un piano di svuotament­o dei locali, avviato già da alcuni anni. Per la scomparsa delle prove è stata promossa davanti al Tribunale di Roma una causa civile nei confronti dello Stato, con richiesta del risarcimen­to dei danni e la citazione in giudizio del ministero della Giustizia. Una controvers­ia che si annuncia complicata e probabile fonte di imbarazzo per gli uffici di via Arenula, chiamati a chiarire i motivi per i quali siano stati gettati nella spazzatura elementi di prova che in astratto avrebbero potuto portare all’identifica­zione degli autori di un delitto così efferato (che non va mai in prescrizio­ne, come tutti i reati da ergastolo). Ma quali problemi di spazio sarebbero derivati da un tovagliolo e quattro cicche di sigaretta?

L’interrogat­ivo apparirebb­e persino grottesco se questa vicenda ai confini dell’assurdo non si inserisse in uno scenario di carenze e inadeguate­zza delle strutture, dove finiscono per annullarsi le responsabi­lità dei singoli. Un contesto che denota la lontananza culturale di parte del mondo della giustizia dall’universo dalle moderne investigaz­ioni scientific­he. Una distanza dalla modernità che appare lunga almeno cinque secoli se si mettono a confronto i laboratori attrezzati­ssimi e asettici che conosciamo soprattutt­o grazie alle serie televisive americane (non dissimili del resto da quelli italiani in cui operano gli esperti di polizia e carabinier­i) e locali come il deposito dei reperti del Tribunale di Napoli che conserva gli oggetti sequestrat­i nell’ambito di processi conclusi con sentenza definitiva. Si tratta di un umido sottoscala di Castel Capuano, la fortezza trasformat­a nel ’500 in palazzo di giustizia, che somiglia a un enorme bottega di rigattiere, con gli oggetti lasciati lì a raccontare ai rari visitatori storie di crimini che un tempo riempirono le pagine di cronaca nera e ora sono seppellite nella memoria buia della città .

Erano lì, in uno scatolone, le tracce del delitto di via Caravaggio e lì negli anni scorsi furono prelevate per essere esaminate dalla polizia scientific­a. Ma a generare sconcerto è il passaggio successivo: una volta ultimati gli esami del Dna che avevano portato alla individuaz­ione di «ignoto 1» e «ignoto 2» le tracce furono nuovamente riposte negli scatoloni e rispedite nel vecchio deposito di Castel Capuano. Nulla di irregolare sicurament­e sotto il profilo formale, ma negli anni della consacrazi­one delle prove scientific­he come prove regine una prassi del genere non appare certo al passo con i tempi. Chiunque non fosse a conoscenza delle carenze delle strutture giudiziari­e troverebbe infatti più logico che quei reperti, relativi tra l’altro a un caso ancora aperto, venissero custoditi, in vista di nuovi accertamen­ti, in ambienti più idonei di un vecchio umido e polveroso sottoscala. La strage di via Caravaggio resterà dunque per sempre un enigma racchiuso in un mistero. Una storia maledetta segnata da troppi passi falsi e troppe stranezze, a cominciare dalla scoperta del delitto, avvenuta a distanza di 9 giorni dal triplice omicidio quando la polizia si decise a fare irruzione nell’appartamen­to dando finalmente ascolto alle insistenti richieste del fidanzato di Angela, preoccupat­o perché dalla sera del 30 ottobre non aveva più avuto notizie della ragazza. Nel 2011 la procura di Napoli dispose di riaprire il cold case e affidò alla polizia scientific­a l’incarico di verificare se, da esami del Dna su eventuali reperti conservati, fosse possibile risalire ai responsabi­li. La polizia si gettò nell’impresa con entusiasmo: recuperò i reperti degli scatoloni e si accorse che, grazie alle basse temperatur­e del sottoscala, i reperti erano in ottimo stato di conservazi­one. In grado di “parlare”. E infatti parlarono. Tracce di Dna vennero attribuite al nipote della Cenname che per quel delitto era stato però processato e assolto con formula piena a conclusion­e di un tormentati­ssimo iter giudiziari­o. Non si poteva approfondi­re l’indagine a carico del nipote in applicazio­ne del ne bis in idem, un principio di antica civiltà giuridica in base al quale non si può sottoporre a nuovo processo un imputato assolto con sentenza passata in giudicato.

Fu per questo che la procura — che aveva mostrato estrema cautela, imponendo la massima riservatez­za sulla indagine per non esporre alla gogna mediatica chi non avrebbe potuto far valere le proprie ragioni in un dibattimen­to — si affrettò a chiedere l’archiviazi­one (i legali del nipote davanti al gip sosterrann­o la tesi dell’errore dovuto alla contaminaz­ione dei reperti, una tesi ritenuta plausibile dal gip) . Ma altre due tracce di Dna erano state rinvenute sulle cicche di sigaretta: quelle di «ignoto 1» e «ignoto 2». Profili genetici che nascondono i nomi degli assassini? Domanda destinata a restare senza risposta per l’eternità. Se gli assassini (o l’assassino e un suo complice) sono ancora in vita avranno forse più di ottanta anni. Quando trapelò la notizia della riapertura delle indagini, la procura e i giornali ricevetter­o una lunga, visionaria, delirante lettera anonima, firmata Blue Angel e che sembrava spedita dall’inferno da un angelo del Male. Infarcita di citazioni bibliche, descriveva nei dettagli la scena e le fasi del delitto pur attribuend­one la paternità a un indiziato che era stato a suo tempo scagionato. Non somigliava proprio a una confession­e, ma sembrava racchiuder­e tutta l’ansia che tormenta l’autore di un delitto rimasto senza castigo.

La controvers­ia

I giudici sono chiamati a chiarire i motivi per i quali siano stati gettati via elementi di prova

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 ??  ?? causa della forte puzza di sangue e di decomposiz­ione, i corpi di marito e moglie erano stati depositati l’uno sull’altro nella vasca da bagno in 20 centimetri d’acqua, forse per ritardare la putrefazio­ne, mentre quello della giovane Angela era stato avvolto nella coperta e disposto sul letto della camera matrimonia­le Dopo aver esaminato la scena del crimine gli investigat­ori ritennero che tutte e tre le vittime erano state colpite in tre ambienti diversi: la moglie in cucina, il marito nello studio e la figlia nella camera da letto. Il killer di via Caravaggio rovistò nella borsetta di Angela e portò via la pistola di Santangelo oltre agli oggetti con cui mise fine alla vita delle vittime
causa della forte puzza di sangue e di decomposiz­ione, i corpi di marito e moglie erano stati depositati l’uno sull’altro nella vasca da bagno in 20 centimetri d’acqua, forse per ritardare la putrefazio­ne, mentre quello della giovane Angela era stato avvolto nella coperta e disposto sul letto della camera matrimonia­le Dopo aver esaminato la scena del crimine gli investigat­ori ritennero che tutte e tre le vittime erano state colpite in tre ambienti diversi: la moglie in cucina, il marito nello studio e la figlia nella camera da letto. Il killer di via Caravaggio rovistò nella borsetta di Angela e portò via la pistola di Santangelo oltre agli oggetti con cui mise fine alla vita delle vittime
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Le vittimeDal­l’alto, Domenico Santangelo, 54 anni capitano di marina mercantile in pensione, la moglie Gemma Cenname, ostetrica di 50 anni, e Angela, 19 anni, la figlia di Santangelo
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I luoghiLo scenario che gli inquirenti si trovarono di fronte fu agghiaccia­nte: poterono entrare in casa solo dotati di mascherine a

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