Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Don Camillo, Peppone e San Paolo
Fosse disponibile, e purtroppo per tutti noi non lo è, ci vorrebbero Giovannino Guareschi e la sua penna intinta in quel meraviglioso veleno dolce che usava per raccontare le sue storie. Ci vorrebbe lui, perché saprebbe districarsi tra proclami e stoccate, tra insulti e contumelie che fioccano giorno dopo giorno tra le due istituzioni (in senso lato) più importanti della città, il Comune e il Napoli.
Anche se bisogna ammettere che più che tra le rappresentate entità pare ormai una questione personale, tra sindaco e parroco (pardon: presidente), secondo uno schema narrativo che sarà pure trito ma resta efficace.
L’ultima riguarda lo stadio di Bari, eletto da De Laurentiis a concreta ipotesi di terreno di gioco per la Champions; starà prendendo confidenza con la città pugliese, ora che ne ha acquistato la squadra. Un ideale passaggio di testimone delle proprietà familiari? Un percorso obbligato dall’assenza di un’intesa sulla convenzione? Una provocazione tesa a smuovere le acque?
Dall’altra parte Peppone (pardon: de Magistris) rivendica l’impossibilità teorica e pratica che il Napoli possa non giocare al San Paolo, che peraltro è un cantiere asfittico e privo di un crono programma, un impianto che si continua a imbellettare superficialmente ma che resta in avanzato stato di decomposizione strutturale. Un proclama vuoto di significato? Il tentativo di guadagnare credibilità su un argomento cruciale? Un diktat senza senso pratico?
Scomoderemmo un altro grandissimo della letteratura italiana del recente passato, per dire con Flaiano che la situazione è grave ma non seria. Perché c’è un principio fondamentale del quale i due contendenti di questa triste, ottusa e vacua contesa non sembrano tener conto.
Il Napoli è dei napoletani. Non è una società di capitali come un’altra, non è un’attività commerciale, e non è un’iniziativa culturale patrocinabile dal Comune, né un’impresa che fa rappresentazioni teatrali. Il Napoli è Napoli, c’è una profonda identità fra le due realtà. L’unica grande città con una squadra sola, l’unico catalizzatore di entusiasmi e felicità, l’unica gioia condivisa da così tanti strati sociali da far impallidire una grossa cipolla. Il Napoli non può e non deve essere sottratto al popolo di Napoli.
Allo stato non ne è mai stato così lontano. Non ha una sede in città, si allena in un’altra provincia, non è concesso a calciatori e dirigenti di parlare liberamente ai tifosi; non ci sono ospiti di trasmissioni televisive, non vengono presentati giocatori in entrata da anni. Non esiste un dialogo effettivo tra il popolo azzurro e la società, il conflitto è pieno ed evidente tra le frange del tifo organizzato (peraltro responsabili di gravissimi atteggiamenti, da esecrare senza esitazioni) e la proprietà. Ci si chiede cosa rimarrebbe di Napoli al di fuori del nome e della tinta della maglia (anche quella in costante allontanamento) se anche lo stadio di casa si trovasse in un altro Comune.
Non è questione da poco. Si parla di effimero, per carità: e ben altri e più seri argomenti andrebbero affrontati, per stabilire i termini di una vivibilità civile a queste latitudini. Ma con la passione non si scherza, e sarebbe il caso se tutti, ma proprio tutti gli attori di questa triste recita facessero un passo indietro e tornassero a parlare da rappresentanti, e non da viceré.