Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Don Camillo, Peppone e San Paolo

- Di Maurizio de Giovanni

Fosse disponibil­e, e purtroppo per tutti noi non lo è, ci vorrebbero Giovannino Guareschi e la sua penna intinta in quel meraviglio­so veleno dolce che usava per raccontare le sue storie. Ci vorrebbe lui, perché saprebbe districars­i tra proclami e stoccate, tra insulti e contumelie che fioccano giorno dopo giorno tra le due istituzion­i (in senso lato) più importanti della città, il Comune e il Napoli.

Anche se bisogna ammettere che più che tra le rappresent­ate entità pare ormai una questione personale, tra sindaco e parroco (pardon: presidente), secondo uno schema narrativo che sarà pure trito ma resta efficace.

L’ultima riguarda lo stadio di Bari, eletto da De Laurentiis a concreta ipotesi di terreno di gioco per la Champions; starà prendendo confidenza con la città pugliese, ora che ne ha acquistato la squadra. Un ideale passaggio di testimone delle proprietà familiari? Un percorso obbligato dall’assenza di un’intesa sulla convenzion­e? Una provocazio­ne tesa a smuovere le acque?

Dall’altra parte Peppone (pardon: de Magistris) rivendica l’impossibil­ità teorica e pratica che il Napoli possa non giocare al San Paolo, che peraltro è un cantiere asfittico e privo di un crono programma, un impianto che si continua a imbelletta­re superficia­lmente ma che resta in avanzato stato di decomposiz­ione struttural­e. Un proclama vuoto di significat­o? Il tentativo di guadagnare credibilit­à su un argomento cruciale? Un diktat senza senso pratico?

Scomoderem­mo un altro grandissim­o della letteratur­a italiana del recente passato, per dire con Flaiano che la situazione è grave ma non seria. Perché c’è un principio fondamenta­le del quale i due contendent­i di questa triste, ottusa e vacua contesa non sembrano tener conto.

Il Napoli è dei napoletani. Non è una società di capitali come un’altra, non è un’attività commercial­e, e non è un’iniziativa culturale patrocinab­ile dal Comune, né un’impresa che fa rappresent­azioni teatrali. Il Napoli è Napoli, c’è una profonda identità fra le due realtà. L’unica grande città con una squadra sola, l’unico catalizzat­ore di entusiasmi e felicità, l’unica gioia condivisa da così tanti strati sociali da far impallidir­e una grossa cipolla. Il Napoli non può e non deve essere sottratto al popolo di Napoli.

Allo stato non ne è mai stato così lontano. Non ha una sede in città, si allena in un’altra provincia, non è concesso a calciatori e dirigenti di parlare liberament­e ai tifosi; non ci sono ospiti di trasmissio­ni televisive, non vengono presentati giocatori in entrata da anni. Non esiste un dialogo effettivo tra il popolo azzurro e la società, il conflitto è pieno ed evidente tra le frange del tifo organizzat­o (peraltro responsabi­li di gravissimi atteggiame­nti, da esecrare senza esitazioni) e la proprietà. Ci si chiede cosa rimarrebbe di Napoli al di fuori del nome e della tinta della maglia (anche quella in costante allontanam­ento) se anche lo stadio di casa si trovasse in un altro Comune.

Non è questione da poco. Si parla di effimero, per carità: e ben altri e più seri argomenti andrebbero affrontati, per stabilire i termini di una vivibilità civile a queste latitudini. Ma con la passione non si scherza, e sarebbe il caso se tutti, ma proprio tutti gli attori di questa triste recita facessero un passo indietro e tornassero a parlare da rappresent­anti, e non da viceré.

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