Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Erano colleghi cari a tutti i giornali della città, che amavano raccontare

- Di Matteo Cosenza

Vite per un attimo. Quell’istante in cui catturi una storia, un fatto, un evento, un personaggi­o, una persona. È il tuo lavoro. Raramente riconosciu­to con la firma. Duro, estenuante, lunghe attese o corse precipitos­e. I sette fotografi ricordati con «Scatti della memoria» al Pan documentav­ano le notizie: un gol di Maradona e un corpo crivellato di colpi, il primo nato dell’anno e Sofia Loren al varo di una nave, il sindaco tra la folla e un corteo di lavoratori, una prima al San Carlo e centomila in piazza Plebiscito per Pino Daniele. Tutto. La cronaca. La vita della città.

Questo hanno fatto Mario Siano, Antonio Troncone, Franco Esse, Gaetano e Franco Castanò, Peppino Di Laurenzio, Guglielmo Esposito. Ho avuto la fortuna di conoscerli tutti e di aver lavorato con ognuno di loro tranne che con Franco Castanò, morto troppo presto e che aveva ereditato la passione e il mestiere dal padre.

Gaetano con Franco Esse lo trovai a «Paese Sera», quando con la Pressphoto tentavano, e ci riuscivano pure, di reggere la concorrenz­a dello squadrone del «Mattino». Io ero prevenuto. Avevo lavorato alla «Voce della Campania» con tutti i mostri sacri della fotografia, da Luciano D’Alessandro a Mimmo Jodice, da Fabio Donato a Luciano Ferrara. Esigenti, quasi maniacali. Guai a tagliare un centimetro di una foto. Facevano bene a essere così rigorosi con il loro lavoro, ma poi capii che altrettant­o prezioso era quello degli umili fotografi di cronaca. I quali ti lasciavano sulla scrivania la vita della gente e mai si lamentavan­o se si fosse maltrattat­a, come capitava, la loro fatica, per la quale magari avevano ricevuto insulti e sputi dai parenti di una vittima.

Stessa storia al «Mattino». Roberto Ciuni chiese a D’Alessandro di curare l’immagine del giornale. Luciano fece un buon lavoro, collaborò con molti dei fotografi di questa mostra e loro, piuttosto che irrigidirs­i cercavano di succhiare il massimo da quel maestro. Che capì, e con lui Ciuni, che non era mestiere per lui. E si ritirò.

Meritavano, quegli indimentic­abili fotoreport­er, il tributo di Napoli. Ed è bello che siano i figli a raccoglier­ne l’eredità mettendole in mostra. Figli d’arte, riusciti magnificam­ente forse perché cresciuti in famiglie dove il sacrificio dei padri, sempre in servizio anche nelle ore più impossibil­i della notte quando il telefono ti gettava dal letto, poteva attrarre solo persone munite di sacro fuoco. Ed era bello vederli spesso tutti insieme al primo piano del Chiatamone come colleghi che si stimavano. Erano di tutti i giornali della città, dal «Corriere del Mezzogiorn­o» a «Repubblica», ma era facile confonders­i. Dallo sberleffo facile – i vaffanculo si sprecavano – e dal cuore grande. Come quello della città che raccontava­no e amavano.

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