Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Cito, fotografo di guerra: ho formato il mio sguardo alla Sanità
Si intitola «Io, napoletano nel mondo» il dibattito che oggi pomeriggio, alle 17, nella sede Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania di via Cappella Vecchia, vedrà protagonista Francesco Paolo Cito, ospite della quinta giornata di «Imbavagliati», il Festival Internazionale di Giornalismo Civile, ideato e diretto da Désirée Klain.
Napoletano, fotoreporter di razza, vincitore due volte del World Press Photo, a Cito è anche dedicato «A Wide Gaze», il documentario di Guido Pappadà che sarà proiettato nel corso dell’incontro.
Cominciamo dal World Press Photo. L’ha vinto per due anni successivi, nel 1995 e nel 1996. «Col senno di poi lo ritengo un incidente di percorso» mi fulmina Cito che, nel 1980, è stato uno dei primi fotoreporter a raggiungere clandestinamente l’Afghanistan occupato dall’Armata Rossa.
Perché?
«Innanzitutto, non avevo mai partecipato a un contest del genere. Ero interessato a fotografare, conoscere e capire. Lavoravo molto in Palestina. Proprio un anno prima, avevo realizzato per il settimanale tedesco “Stern” un reportage sui coloni israeliani oltranzisti. Insomma, mi capitò per caso il bando di concorso del World Press e inviai un po’ di scatti, per una delle sezioni in gara. In quel periodo mi trovavo a Napoli: stavo facendo un lavoro sui matrimoni napoletani e inviavi anche una serie di quegli scatti».
Come andò a finire?
«Che l’anno dopo vinsi il terzo premio “Day in the Life” per la “Neapolitan Wedding story”. Rimasi davvero deluso. Avevo delle fotografie straordinarie della Palestina, e premiavano i matrimoni».
L’anno dopo ci riprova.
«Sì. Avevo ricevuto il bando e nella giuria mi accorsi che c’era la photo editor tedesca che aveva selezionato e pubblicato una foto palestinese. Dico, quasi quasi ritento».
E invece?
«La tedesca fu sostituita all’improvviso e vinse il Palio. Mi aggiudicai il primo premio per il Palio di Siena, scatti che avevo mandato per un’altra sezione. Altra delusione».
Non era destino, per la Palesti- na.
«Evidentemente no». Ragioni politiche, censura? «No. Non credo. La censura è un meccanismo molto più sottile e pervasivo. Vero è che molte volte mi hanno rifiutato foto sull’Intifada. Però per lo stesso impegno sono stato anche premiato: dall’Istituto abruzzese di storia contemporanea. Diciamo che nel caso del WPP furono una serie di circostanze casuali».
Ritorniamo alla censura.
«Le racconto un esempio. Nel 1990, durante la prima guerra del Golfo, feci una foto emblematica. Era l’immagine di un Marine con tre dignitari sauditi sullo sfondo. Repubblica non l’ha mai pubblicata eppure fu giudicata dagli inglesi la migliore fotografia dei quell’anno».
C’è un’ottima scuola di fotoreporter partenopei, una tradizione ben consolidata. Che c’è di speciale nello “sguardo” napoletano?
«Rispondo per me. Sono nato nella Sanità. Giocavo nel Cimitero dello Fontanelle e andavo a scuole da suore severissime. La Sanità me la porto dentro. Penso che più degli altri abbiamo una maggiore dimestichezza con le avversità, con il dolore».
A che cosa sta lavorando ora? «Sono in attesa del libro sull’Irpinia che ho realizzato per Feudi San Gregorio, l’azienda vinicola e poi sto per inaugurare una mostra sulla Puglia, a Washington».
Qui da noi abbiamo maggiore abitudine al dolore e questo ce lo portiamo dentro