Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LO STATO SCOMPARE IN CITTÀ
La stazione centrale di Napoli e i collegamenti sudnord della rete ferroviaria nazionale ieri sono stati paralizzati per alcune ore dai familiari e amici dei tre napoletani misteriosamente scomparsi in Messico nove mesi fa. Dov’è la notizia? Nessun nuovo elemento emerge dalla vicenda messicana: in piedi rimane l’ipotesi che i tre, recatisi nel lontanissimo Messico per ragioni di commercio, siano stati rapiti e venduti, come fossero essi stessi merce, a un noto narcotrafficante. Le autorità dei due paesi stanno obiettivamente collaborando per ritrovare, vivi o morti, e speriamo vivi, i nostri concittadini. Non è il caso Regeni. La notizia è ancora una volta quella di una scomparsa: desaparecido è lo Stato. Possono parenti e amici manifestare invadendo a passo di bersagliere la hall della stazione per andare a infilarsi sotto i binari dei treni e bloccare migliaia di pendolari e viaggiatori? Possono opporre resistenza alla dissuasione delle forze di polizia impegnate, anche per loro, a salvaguardare l’ordine pubblico e la legalità? I video diffusi sulla rete mostrano donne che si divincolano rabbiosamente dalle braccia dei poliziotti che tentano di fermarle. Una grida «levateme ‘e mane ‘a cuollo!», un’altra «lo Stato italiano non ci aiuta!», un’altra inveisce al grido di «Metteteve scuorno!» contro i pazienti tutori dell’ordine in tenuta antisommossa. Tutto avviene in pochi minuti nella hall della stazione, tra un fuggi fuggi generale come fosse scoppiata una bomba nel mercato di Kabul.
Ma dura ore: per troppe ore lo Stato è stato ostaggio di un piccolo gruppo di persone, di cui non discutiamo le ragioni, ma i comportamenti.
Per evitare incidenti, le forze di polizia hanno cercato il dialogo più che tirare per i piedi e trascinare via con la forza i pochi familiari e amici di Antonio, Raffaele e Vincenzo, ma vanamente. Con la conseguenza oggettiva che per troppo tempo alla stazione Centrale di Napoli, capitale del Sud, dell’accoglienza e dell’autonomia, come sancito dal nostro primo cittadino, le regole della legalità e della civile convivenza sono rimaste sospese. Sospese come le corse dei treni, degli Italo e dei Frecciarossa. La legalità si sa, non è un optional. S’insegna nelle scuole e nelle famiglie, ma poi naufraga contro gli scogli degli abusi quotidiani e della assenza dei controlli. Come avviene ogni giorno sotto i nostri occhi, sotto il nostro portone, agli incroci delle nostre strade, a Napoli. Dove il semaforo rosso è un suggerimento, lo scooter può circolare sui marciapiedi, il parcheggiatore può esercitare l’estorsione sulle strisce blu, i centri sociali acquisire la titolarità di immobili comunali, la stesa diventare un’abitudinaria prassi di esibizione del potere territoriale.
Vi sono città tendenzialmente anarcoidi, per un’innata vocazione o per una voluta politica del lasciar fare. È qui che Napoli può sicuramente intestarsi il titolo di capitale.
Nella turbolenza della vita metropolitana, tra la legittima protesta di una minoranza e la considerazione dei diritti della collettività c’è una sottile e incerta linea di demarcazione: dove finisce l’una e comincia l’altra? Non può esserci una regola, se non quella della misura: est modus in rebus, come insegna la saggezza degli antichi fondatori del diritto. Esiste perciò una soglia, un limite che il senso comune dice che non è consentito oltrepassare. Una vera comunità esige il rispetto di questa soglia, tanto nella vita civica quanto nelle aziende. Un gruppo può manifestare a piazza Garibaldi, ma non interrompere per ore un servizio pubblico. Impunemente. Allo stesso modo una categoria di lavoratori o una singola sigla sindacale, possono rivendicare qualunque diritto, ma non tenere in ostaggio una intera comunità di utenti.
Quando ciò avviene non occasionalmente, ma come un abituale comportamento, quasi un diritto acquisito, ci troviamo nella terra di nessuno. Mentre nelle remote periferie del Messico scompaiono tre nostri concittadini, lo Stato scompare nel cuore della città.