Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Tra le bomboniere a forma di pistola nel Golfo e le vele di Trieste

- di Franco Di Mare

Qual è l’identità di un popolo? In quale momento i caratteri diversi, i dialetti, le differenze culturali, i mille e uno campanili si fondono insieme per dare vita a un volto unico che ci definisce come popolo? In questo fine settimana ci sono state due storie, molto distanti tra loro, che ci raccontano di un paese che, quasi 160 anni dopo l’unità nazionale, si ritrova nei principi fondanti solo periodicam­ente e sembra fare ancora fatica a trovare un’unica risposta alle questioni etiche, una sola visione del mondo. A Trieste pochi giorni fa c’è stata la cinquantes­ima edizione della Barcolana, la più grande regalata velica del mondo, giunta alla sua 50ma edizione.

È una regata particolar­e la Barcolana, unica. Prende il nome dal glorioso circolo velico di Barcola che nel ‘68 s’inventò una regata aperta a qualunque scafo dotato di una vela. E così, da mezzo secolo, grandi velieri si ritrovano a fare bordi accanto a barchette dotate di un lenzuolino tenuto da un alberello striminzit­o.

È una regata vera, la Barcolana, con tanto di categorie e vincitori. Ma è allo stesso tempo una fantastica festa del mare a cui partecipan­o miliardari e pensionati, una gara dove la competizio­ne passa in secondo piano e la vittoria consiste nell’esserci stati, nell’aver gareggiato e aver puntato la prua verso le boe colorate del percorso, miglia al largo del porto. Quest’anno c’erano 2700 imbarcazio­ni: un record assoluto, con gli equipaggi che parlavano le lingue di tutto il mondo. Un segno tangibile del fatto che, attraverso la Barcolana, ogni anno Trieste celebra la sua italianità e la sua differenza, il suo essere cosmopolit­a e aperta - come piazza unità d’Italia, la più grande piazza d’Europa sul mare - e, nello stesso tempo, andar fieri del proprio dialetto, della storia e dei campanili.

È italiana e locale, Trieste. Come Napoli, se ci riflettiam­o. A seguire la regata, anche quest’anno, decine e decine di giornalist­i specializz­ati di mezzo mondo. E la stampa locale. Per l’Ansa, l’agenzia di stampa più importante del nostro paese, c’era Francesco De Filippo, giornalist­a napoletano (del resto, nomen omen…)

da sette anni trasferito­si a Trieste. «Qui mi trovo benissimo», mi ha confessato mentre ammiravamo la regata e le frecce tricolori lasciavano la scia coi colori della bandiera nel cielo terso del golfo, davanti a decine di migliaia di persone con il naso all’insù. Trieste somiglia a Napoli, ha spiegato: vive in simbiosi col mare, è aperta al nuovo, è tollerante e accoglient­e, ama la vita e lo fa con una sua elegante indolenza. Insomma è una Napoli più piccola e più gentile, ha detto.

Ed è proprio a Napoli che si è verificato il secondo episodio che ci dice che la strada da compiere è ancora lunga, che ci sono ancora muri da abbattere e ponti da costruire. Nella Napoli cosmopolit­a a cui faceva riferiment­o il collega dell’Ansa, si è verificata una storiella incredibil­e, riportata da questo giornale. Pare che in alcuni quartieri spopoli un nuovo tipo di bomboniera da regalare nelle feste di prima comunione e cresima. Le bomboniere di moda sono riproduzio­ni in ceramica, in miniatura, di pistole calibro nove. Pistole. Nel giorno in cui i bambini celebrano la prima comunione. Ora, se uno è un credente dovrebbe sapere che la prima comunione, tra i sette sacramenti, è tra i più importanti, perché è quello che celebra l’ingresso a pieno titolo nella comunità dei cristiani. Il rito ripropone quello del pane e del vino distribuit­o ai discepoli da Gesù nell’ultima cena. Celebrando­lo, i cattolici entrano a far parte del cenobio.

Ecco, qualche deficiente ha pensato di far entrare i suoi bambini nella comunità armati di pistola. Non si sa mai. Dovessero fare brutti incontri. Attenzione a non commettere l’errore di rubricare questa storia a folclore, qua non si tratta di una leggerezza, non c’è nulla di pittoresco. È invece il segno di un imbarbarim­ento sociale e culturale, oltre che religioso, a cui bisogna sottrarsi, da cui ci si deve smarcare il più rapidament­e possibile.

Raffaele La Capria, l’autore di ferito a morte, romanzo con cui vinse il Premio Strega nel ’61 ha dato alle stampe un nuovo libro, dal titolo «Il fallimento della consapevol­ezza», di cui ha già parlato Antonio Polito proprio su questo giornale. È una lucidissim­a analisi del rischio dell’omologazio­ne a cui la modernità ci condanna. Come si fa a mantenere la propria particolar­ità, la propria originalit­à di individui senza annullarsi in una visione univoca delle cose?

Bisognava essere giorni fa a Trieste per capire che una risposta possibile esiste. C’è la possibilit­à di mantenersi originali ma nello stesso tempo perdere le scorie volgari e violente. Buttare nell’immondizia le orrende bomboniere a forma di pistola e riscoprire il significat­o religioso della comunione, se si è credenti. E se non lo si è, scoprire il rispetto per le differenze e godersi una straordina­ria giornata di sole, sulle rive triestine o sul lungomare di via Partenope a guardare le vele correre tra le onde, passeggian­do tra la folla e scoprire che è bellissimo essere così diversi e così simili.

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