Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«I maggiori rischi ora arrivano dall’Est Europa»
Non sono untori gli immigrati, ma il rischio dipende dalle condizioni in cui sono costretti a vivere
Spesso il male è presente nel fisico di chi arriva in Italia e poi si sviluppa molti anni dopo anche per le mutate condizioni ambientali
«Che la tubercolosi sia ormai sparita è una favola che ci raccontiamo per stare sereni, la verità è che sempre più spesso ci imbattiamo in forme resistenti ai farmaci e che il rischio, soprattutto per le persone immunodepresse, è concreto».
A parlare è Roberto Parrella, direttore dell’Unità operativa complessa di malattie infettive a indirizzo respiratorio all’ospedale Cotugno.
Dottor Parrella, questa recrudescenza è legata aI flussi migratori?
«Togliamoci dalla testa l’idea dell’immigrato untore. La tubercolosi è legata a condizioni di vita difficili se non addirittura ai limiti. Gli immigrati sono spesso vittime di un sistema che li relega ai margini della società e quindi non sempre riescono a trovare sul territorio cure adeguate».
Quali sono le aree di provenienza più rischiose?
«A differenza di quanto si potrebbe credere, i maggiori rischi in questo momento arrivano dall’ex blocco sovietico. I dati in nostro possesso ci dicono che questi pazienti, che non sono quindi considerati “extracomunitari”, quando sono colpiti da Tbc hanno spesso delle forme resistenti alle cure. Il problema maggiore è che queste persone diventano potenzialmente dei vettori molto efficienti per il batterio».
E’ possibile essere colpiti da una forma latente?
«Non solo è possibile ma, per chi proviene da paesi dove la tbc è endemica, è anche molto probabile. Gli immigrati di nuovo arrivo difficilmente hanno una tubercolosi attiva, spesso si ammalano dopo anni che sono in Italia. Tipicamente hanno delle forme latenti che vengono attivate da condizioni socio-ambientali difficili. Come ho già detto, molti vengono dall’Est Europa, per loro arrivare in Italia è molto facile. In questi pazienti riscontriamo spesso forme multiresistenti».
Esiste un controllo epidemiologico a livello regionale?
«Esiste una rete di controllo efficiente, del resto la tubercolosi è una malattia per la quale è obbligatoria la denuncia. Ogni caso va segnalato alla direzione sanitaria che poi provvede ad allertare gli uffici di sanità pubblica per un’approfondita inchiesta epidemiologica. Ma, quando si parla di senza fissa dimora, è possibile che qualche paziente, o qualcuno entrato in contatto con lui, riesca a bucare le maglie dei controlli».
A Napoli il polo di riferimento è il Cotugno?
«Siamo un punto di riferimento a livello Regionale per questa patologia. Chiaramente esiste una piccola casistica anche in altre strutture, ma di fatto i casi che vediamo noi costituiscono la quasi totalità di quelli esistenti. Devo dire che una delle difficoltà maggiori per noi medici è legata al fatto che i pazienti arrivino spesso in fase avanzata di malattia. In questi casi è difficile ripristinare una soddisfacente integrità polmonare».
Abbiamo farmaci efficaci per le cure?
«Anche qui i problemi sono tanti, per le forme farmaco-sensibili ci sono gravi carenze in tuta Italia. In più, quando curiamo una forma acuta, non sappiamo se una volta dimesso il paziente proseguirà il trattamento nei mesi a venire. Il più delle volte il territorio non riesce a farsi carico di queste persone e dunque è possibile che queste persone possano diffondere la malattia».