Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Corradino e il trionfo della ragion politica
Il 29 ottobre del 1268 a piazza Mercato, all’incirca nello spazio dove è oggi la chiesa di Santa Croce, furono decapitati Corradino di Svevia, appena sedicenne, e l’amico Federico d’Austria, dopo la lettura della sentenza di morte, che non era stata l’esito di un vero e proprio processo. Si trattava infatti di una decisione presa da Carlo d’Angiò, facendosi scudo dei pareri di alcuni giuristi e mostrandosi in dovere di accogliere la richiesta dei rappresentanti dei centri abitati, che si ritenevano danneggiati dalle operazioni belliche legate alla fallita invasione del regno da parte dell’esercito svevo, appoggiato dai baroni meridionali legati alla memoria di Federico II e di Manfredi.
I prigionieri furono quindi giustiziati in quanto predoni e traditori, e non in quanto nemici che, avendo combattuto in campo aperto, secondo il codice cavalleresco avrebbero dovuto essere liberati dopo il pagamento da parte dei familiari di un congruo riscatto. È chiaro che le ragioni della politica avevano prevalso su quelle del diritto: Corradino prigioniero o addirittura in libertà avrebbe costituito per il sovrano angioino una minaccia continua non solo per i diritti sul regno, che prima o poi avrebbe ripreso a rivendicare, ma anche perché a lui avrebbero continuato a guardare non pochi baroni meridionali e gli esponenti dello schieramento ghibellino italiano.
Come abitualmente avveniva allora, la sentenza di morte fu eseguita non in un luogo appartato, ma là dove era possibile un grande concorso di spettatori. Quello scelto in questo caso aveva il duplice vantaggio di essere fuori della città, ma nello stesso tempo molto frequentato, perché già da almeno un secolo vi si andavano concentrando gli scambi commerciali, per i quali era ormai insufficiente lo spazio dell’antico foro romano nell’area di San Lorenzo-San Gregorio Armeno. La tradizione storiografica napoletana ha da sempre attribuito il trasferimento a Carlo d’Angiò, unitamente a tanti altri interventi di carattere urbanistico e alla realizzazione di grandiosi complessi architettonici, che invece oggi sappiamo per certo che furono promossi o finanziati dal figlio Carlo II, tra cui la radicale ristrutturazione del duomo e delle chiese-convento di San Domenico, San Lorenzo, Sant’Agostino e Santa Maria del Carmine. All’iniziatore della dinastia angioina si devono invece il nuovo arsenale e la costruzione della reggia-fortezza di Castelnuovo, nonché il sostegno alla fondazione della chiesa-ospedale di Sant’Eligio ad opera dei suoi connazionali francesi, che insieme al convento dei Carmelitani contribuì a dare agli abitanti e agli operatori economici dell’area del mercato un saldo punto di riferimento sul piano religioso e assistenziale.
La più recente storiografia ha fatto chiarezza anche su quello che l’insediamento della dinastia angioina ha significato per il destino di Napoli, che divenne di fatto, anche se in assenza di un atto formale, una città capitale in senso moderno, di cui sono considerati elementi essenziali la residenza stabile del re, la concentrazione degli uffici centrali dell’amministrazione e la capacità di fornire al resto del paese modelli culturali. Questo però non avvenne tutto insieme né tanto meno l’adesione dei Napoletani al nuovo regime politico fu unanime e definitiva. Lo si vide nel giugno del 1284, quando il popolo insorse, ritenendo ormai prossimo il crollo del dominio angioino in seguito alla cattura del principe Carlo nel golfo di Napoli ad opera di una squadra siculo-aragonese. Fu solo con Carlo II, una volta liberato dalla prigionia e succeduto al padre, che si ebbero un più stretto legame della città con la monarchia e il pieno inserimento del ceto dirigente napoletano nell’amministrazione centrale e periferica del regno.
A questo è da aggiungere che da più di un secolo, e quindi da molto prima della conquista angioina, erano in atto a Napoli vivaci dinamiche politiche, sociali ed economiche, di cui Federico II era stato ben consapevole, se aveva fatto a favore della città tutta una serie di interventi, tra cui la fondazione dell’università: interventi che avrebbero lasciato presagire un ben diverso atteggiamento dei suoi abitanti verso la memoria dell’imperatore svevo ed i suoi discendenti, tra cui da ultimo Corradino. È lecito congetturare che la sua misera fine abbia commosso i Napoletani, ma di questo non è rimasta traccia nelle fonti storiche del tempo, dato che l’unica attendibile, la Rerum Sicularum Historia, scritta tra il 1284 e il 1285 da Saba Malaspina, un ecclesiastico della curia pontificia espressione dell’ambiente guelfo ostile agli Angioini, nulla dice della reazione della città, limitandosi ad esprimere la sua personale commiserazione con toni che sono stati giustamente definiti virgiliani. Tutti i particolari che nel corso del tempo sono stati aggiunti alla sua narrazione si devono invece a storici del tardo Quattrocento e degli inizi del Cinquecento, quando si registra, anche in chiave antifrancese, una rivalutazione dell’età degli Svevi nella storia del Mezzogiorno.