Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Un monito contro la «napoletanità» populista
C’è un nesso forte, infatti, tra napoletanità e populismo. E c’è un nesso ancora più forte tra i De Filippo e la napoletanità.
Quasi un cerchio che si chiude, col rischio di consegnare definitivamente il mito dei De Filippo a una prospettiva ambigua. A sollevare il caso, ancora una volta, è Raffaele La Capria che da una vita ci spiega che la napoletanità non sarebbe nulla senza «Di Giacomo, le canzoni napoletane, Era di maggio, Palomme ‘e notte, Eduardo, Totò e Troisi». Eduardo, appunto.
Nel suo ultimo libro, Il fallimento della consapevolezza, la Capria torna a scagliarsi contro la napoletanità perché — spiega — è una cultura che «si ama e si crogiola», a differenza di una cultura europea che invece «è autocritica, è spiacente con sé stessa, tende a superarsi, a introiettare e a divenire altro, perché si interessa dialetticamente dell’altro da sé».
Inoltre, ribadisce di non amare «il populismo e la plebe-dipendenza di tanti intellettuali e scrittori napoletani perché sono sentimentali e non analitici». Ammette, però, che la napoletanità ha tenuto insieme la società; ha sanato la frattura tra la Napoli plebea e quella illuminata di cui si parla dai tempi di Vincenzo Cuoco; e grazie all’uso del dialetto ha abolito le differenze tra ricchi e poveri favorendo una convivenza altrimenti impossibile. Siamo al punto.
La dimensione ambigua della napoletanità è la stessa del populismo di oggi. Trasversale. Maggioritaria. Funzionale a tenere insieme gli opposti: ieri la plebe aggressiva e la borghesia intimidita, oggi le pulsioni sudiste e quelle nordiste del governo gialloverde.
Dopo averla anticipata, Napoli e la napoletanità si specchiano nell’Italia populista. Non a caso — ci ricorda Paolo Macry — Napoli è la città di Lauro che anticipa Berlusconi; di Bassolino che anticipa il partito del leader anche a sinistra; e di de Magistris che anticipa Di Maio e Fico. È il mistero della napoletanità con cui provò a misurarsi, a metà degli anni Settanta, anche Antonio Ghirelli che dedicò al tema un saggio-inchiesta che fece molto rumore. Ghirelli indagò a tutto campo e intervistò decine di personalità, da Elena Croce a Antonio Juliano, l’Insigne del tempo. Alla fine anche lui, il giornalista-scrittore amico di La Capria, di Francesco Rosi e di Filippo Patroni Griffi; anche lui del gruppo dei napoletani «fuoriusciti», chiamati così perché decisi a sprovincializzarsi allontanandosi da Napoli, ne rimase in qualche modo irretito. La napoletanità esiste, scrisse, ed è qualcosa di molto simile alla hispanidad: analogo è il rimando a una civiltà peculiare.
Per ironia della sorte, fu poi lo stesso La Capria, un giorno, a invocarla con toni positivi. Gli capitò quando Giorgio Bocca, dopo aver pubblicato L’inferno, tornò, con un successivo libro, a ricollocare Napoli — corrotta, violenta e incivile — negli inferi. Era il 2006 e alla fine di un duro scambio di lettere, La Capria prese le difese della città e si congedò così: «Caro Bocca, un po’ di napoletanità farebbe bene anche a te, ti renderebbe un po’ più duttile, un po’ più aperto alla bellezza della vita».
Curioso, no? Uno passa gli anni a criticare la napoletanità perché la considera una «controrivoluzione esistenziale», e poi, a fini autoassolutori, finisce per indicarla come antidoto a visioni troppo cariche di pregiudizio. Come si spiega? Non c’è che una risposta. Nella napoletanità deve esserci qualcosa che pur se «sentimentale e poco analitico», come dice La Capria, può essere comunque utile. Perfino a chi crede nella ragione e non nel folklore. Sarà il parlar chiaro. Saranno la vicinanza alla sostanza delle cose o l’andare verso il popolo per non perderlo di vista. Saranno il presepe come metafora e il caffè come pietra filosofale. Difficile dirlo. Ma nessuno può negare che i De Filippo, come Totò e Troisi, sapessero cosa fosse. E se ancora li celebriamo, qualcosa vorrà pur dire.