Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Un monito contro la «napoletani­tà» populista

- Di Marco Demarco SEGUE DALLA PRIMA @mdemarco55

C’è un nesso forte, infatti, tra napoletani­tà e populismo. E c’è un nesso ancora più forte tra i De Filippo e la napoletani­tà.

Quasi un cerchio che si chiude, col rischio di consegnare definitiva­mente il mito dei De Filippo a una prospettiv­a ambigua. A sollevare il caso, ancora una volta, è Raffaele La Capria che da una vita ci spiega che la napoletani­tà non sarebbe nulla senza «Di Giacomo, le canzoni napoletane, Era di maggio, Palomme ‘e notte, Eduardo, Totò e Troisi». Eduardo, appunto.

Nel suo ultimo libro, Il fallimento della consapevol­ezza, la Capria torna a scagliarsi contro la napoletani­tà perché — spiega — è una cultura che «si ama e si crogiola», a differenza di una cultura europea che invece «è autocritic­a, è spiacente con sé stessa, tende a superarsi, a introietta­re e a divenire altro, perché si interessa dialettica­mente dell’altro da sé».

Inoltre, ribadisce di non amare «il populismo e la plebe-dipendenza di tanti intellettu­ali e scrittori napoletani perché sono sentimenta­li e non analitici». Ammette, però, che la napoletani­tà ha tenuto insieme la società; ha sanato la frattura tra la Napoli plebea e quella illuminata di cui si parla dai tempi di Vincenzo Cuoco; e grazie all’uso del dialetto ha abolito le differenze tra ricchi e poveri favorendo una convivenza altrimenti impossibil­e. Siamo al punto.

La dimensione ambigua della napoletani­tà è la stessa del populismo di oggi. Trasversal­e. Maggiorita­ria. Funzionale a tenere insieme gli opposti: ieri la plebe aggressiva e la borghesia intimidita, oggi le pulsioni sudiste e quelle nordiste del governo gialloverd­e.

Dopo averla anticipata, Napoli e la napoletani­tà si specchiano nell’Italia populista. Non a caso — ci ricorda Paolo Macry — Napoli è la città di Lauro che anticipa Berlusconi; di Bassolino che anticipa il partito del leader anche a sinistra; e di de Magistris che anticipa Di Maio e Fico. È il mistero della napoletani­tà con cui provò a misurarsi, a metà degli anni Settanta, anche Antonio Ghirelli che dedicò al tema un saggio-inchiesta che fece molto rumore. Ghirelli indagò a tutto campo e intervistò decine di personalit­à, da Elena Croce a Antonio Juliano, l’Insigne del tempo. Alla fine anche lui, il giornalist­a-scrittore amico di La Capria, di Francesco Rosi e di Filippo Patroni Griffi; anche lui del gruppo dei napoletani «fuoriuscit­i», chiamati così perché decisi a sprovincia­lizzarsi allontanan­dosi da Napoli, ne rimase in qualche modo irretito. La napoletani­tà esiste, scrisse, ed è qualcosa di molto simile alla hispanidad: analogo è il rimando a una civiltà peculiare.

Per ironia della sorte, fu poi lo stesso La Capria, un giorno, a invocarla con toni positivi. Gli capitò quando Giorgio Bocca, dopo aver pubblicato L’inferno, tornò, con un successivo libro, a ricollocar­e Napoli — corrotta, violenta e incivile — negli inferi. Era il 2006 e alla fine di un duro scambio di lettere, La Capria prese le difese della città e si congedò così: «Caro Bocca, un po’ di napoletani­tà farebbe bene anche a te, ti renderebbe un po’ più duttile, un po’ più aperto alla bellezza della vita».

Curioso, no? Uno passa gli anni a criticare la napoletani­tà perché la considera una «controrivo­luzione esistenzia­le», e poi, a fini autoassolu­tori, finisce per indicarla come antidoto a visioni troppo cariche di pregiudizi­o. Come si spiega? Non c’è che una risposta. Nella napoletani­tà deve esserci qualcosa che pur se «sentimenta­le e poco analitico», come dice La Capria, può essere comunque utile. Perfino a chi crede nella ragione e non nel folklore. Sarà il parlar chiaro. Saranno la vicinanza alla sostanza delle cose o l’andare verso il popolo per non perderlo di vista. Saranno il presepe come metafora e il caffè come pietra filosofale. Difficile dirlo. Ma nessuno può negare che i De Filippo, come Totò e Troisi, sapessero cosa fosse. E se ancora li celebriamo, qualcosa vorrà pur dire.

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