Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il nuovo business dei clan, fare la cresta sull’Iva
False fatture, imprese-fantoccio e affari in Emilia. A giudizio anche il boss delle stese
NAPOLI Il boss aveva una lista lunghissima su un pezzo di carta. Cognomi e nomi di imprenditori del suo quartiere, i loro indirizzi di casa, i familiari da circuire e all’occorrenza minacciare, quello di cui si occupavano e soprattutto le città nelle quali costruivano con successo i propri affari.
Con quella lista sempre aggiornata per il capoclan era tutto più facile. A uno a uno venivano contattati in modo «pacifico» da emissari in giacca e cravatta, che salivano sul primo treno per Bologna e da lì in auto fin nel cuore della pianura padana. Poche parole e partiva l’affare della camorra di San Giovanni a Teduccio che ha inventato un nuovo e sofisticato modo per riciclare i milioni di euro che arrivano dai traffici di droga. I boss creano società ed emettono fatture per lavori inesistenti. Le fatture vengono liquidate dagli imprenditori sotto minaccia. E fino a qui nulla di nuovo. La differenza con il passato è tutto nelle pagine di una nuova inchiesta che ha travolto la camorra della periferia orientale di Napoli, quella delle «stese» e delle faide ventennali.
Succede che i soldi per pagare quelle fatture agli imprenditori glieli passano in contanti gli emissari del boss. E allora qual è il guadagno? L’Iva, quella viene pagata dall’imprenditore estorto, subito e in contanti con tagli piccoli, facili da ridistribuire «e che servono per i carcerati». In sostanza tutto risulta in regola, invisibile agli occhi degli investigatori. Il clan D’Amico ha creato una società, la «Gip Metallica», intestata a un prestanome, con sede all’estero e conti correnti attivi in diverse banche. Dall’altra parte, è stato scoperto il coinvolgimento di imprese edilizie di due fratelli di San Giovanni che hanno trovato fortuna a Reggio Emilia e Parma e hanno lasciato San Giovanni da un decennio. Sono loro che hanno pagato fatture di 7 mila euro, poi 28 mila, poi 15 mila euro, soldi che ricevevano sottobanco dalla camorra, e poi versato l’Iva al 24% per ognuna di quelle fatture. Soldi tracciabili e «puliti». Un’operazione incredibile di autoriciclaggio che il gip Claudio Marcopido ha ricostruito passaggio dopo passaggio nell’ordinanza che ha coinvolto il boss Salvatore D’Amico detto il Pirata, che era stato scarcerato per scadenza termini dopo una condanna a 19 anni per camorra, ritenuto vicino ai Mazzarella; il suo braccio destro Salvatore Cianiello, ragioniere della cosca, e l’insospettabile con l’accento del Nord Salvatore Salomone. Con loro sono indagati anche Giovanni Paudano, Salvatore Taglialatela e Mauro Cirullo. Sei persone accusate di estorsione e di riciclaggio. Adesso sono tutti sotto processo perché il pm ha chiesto per loro il giudizio immediato. «La camorra ha affinato le tecniche di riciclaggio — scrive il gip — perché ricevano dagli imprenditori minacciati
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Il pm La camorra ha affinato le tecniche di riciclaggio, così ricevono dagli imprenditori minacciati soldi con bonifici regolari e tracciabili
soldi con bonifici regolari e tracciabili. La contaminazione criminale in cui versa il territorio è notoria», ma questa nuova attività di riciclaggio «appare come un male endemico che sta affliggendo imprenditori e commercianti, spesso responsabili di una sostanziale passività e omertà umanamente comprensibile, ma certamente devastante ai fini della tutela penale».
L’inchiesta è partita dopo la denuncia dei due fratelli fatta ai carabinieri il 12 aprile: «Non ce la facciamo più, non vogliamo partecipare a questo riciclaggio», hanno detto dopo aver raccontato di essere stati costretti ad un summit con boss e suoi emissari. «C’erano telecamere e sentinelle ovunque». Poi una mattina fu addirittura affisso un volantino sotto casa della sorella dei due imprenditori minacciati «che ancora vive a San Giovanni». C’era scritto: «Dite a vostro fratello che ha tempo fino a domani».