Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Per 12 cittadini su cento la camorra esiste soltanto in tv
Non sono tra quelli che credono che esista un genius loci, un carattere connaturato al territorio che imponga una sorta di comune agire, un profilo che ci identifichi tutti, inevitabilmente, come gens e che, proprio per questo, definisca il nostro destino e dunque possa costituire nello stesso tempo la nostra condanna. Di questa materia sono fatti i luoghi comuni, che sono il terreno di coltura in cui proliferano i virus peggiori delle comunità: il razzismo e la xenofobia, parenti stretti del nazionalismo e del suprematismo. Gli imbecilli che durante JuveManchester United intonavano cori contro i napoletani sono impastati di quello sterco lì.
Però ci deve pur essere una spiegazione che tenga conto di certe risposte collettive, del respiro che sembra muoversi all’unisono in certi settori della collettività. Altrimenti come si spiegano certi fenomeni politici, come si giustificano gli oscillamenti collettivi dei gusti, delle tendenze, delle dinamiche di massa, di certe propensioni condivise?
Insomma, come facciamo a spiegare che dodici cittadini campani su cento credono che la camorra sia un fenomeno letterario e cinematografico? Per quanto incredibile possa sembrare sono questi i risultati del rapporto sulla percezione e presenza delle mafie e della corruzione di «Liberaidee» presentato di recente nella sede dell’ordine dei giornalisti della Campania. Possibile che tutto questo sia unicamente frutto della visione di certe serie tv che ci inducono a credere che tra digitale e realtà non esista distinzione alcuna? È la stessa discutibile matrice mediatica che porta i ragazzi dei quartieri bene di Napoli a parlare con lo slang di Genny Savastano? Come si spiega che fenomeni come le stese non vengano considerati per quello che sono, vale a dire moderni riti di iniziazione della camorra, proprio come un tempo erano i puntini tatuati alla base del pollice dei membri della suggietà?
Nella percezione fallace di chi crede che la camorra sia un fenomeno da serial tv non credo però sia rintracciabile la volontà omertosa di coprire il fenomeno malavitoso (ricordate Vito Ciancimino - sindaco mafioso di Palermo - che diceva che la mafia era una invenzione della stampa?) quanto piuttosto un approccio inedito e sconcertante alla realtà, ormai figlia degenere della mediazione digitale.
Insomma: è Genny Savastano che usa lo slang della vera camorra, o sono i veri camorristi a parlare come i personaggi di Gomorra?
Il brodo di coltura del fenomeno è la corruzione, o meglio: la sua percezione. Quasi un terzo degli intervistati considera la corruzione come un fenomeno normale, connaturato al proprio territorio: la pensa in questo modo il 37,8 per cento degli intervistati, che, se ci pensate, è un’enormità. È una cifra elevatissima, immediatamente correlabile al solco profondo che separa ormai lo stato e le sue istituzioni dai cittadini.
La corruzione viene considerata connaturata al sistema politico e quasi una persona su due (il 42,9 per cento) crede che partiti e membri del parlamento e del governo siano direttamente coinvolti nei meccanismi della corruttela. A crederlo sono soprattutto giovani e giovanissimi: insomma la generazione 4.0.
La maggior parte delle persone intervistate in Campania però ritiene che il fenomeno sia preoccupante e
socialmente pericoloso: lo pensano sei napoletani su dieci. La diversa percezione della corruzione e della criminalità nella nostra regione è legata all’età degli intervistati. Più cresce l’età, più il fenomeno preoccupa per i suoi ricadute negative sulla sfera sociale e soprattutto economica.
Il giudizio di giovani e meno giovani, invece, coincide sulle possibili misure di contrasto da adottare. Nessuno o quasi crede che una delle soluzioni possibili sia votare candidati integerrimi e onesti.
Insomma, la fiducia s’è smarrita. Sono in pochi, pochissimi quelli che credono ancora che alla politica spetti il compito di governare in modo etico e di rispondere direttamente agli elettori – e ovviamente alla magistratura, se del caso - del proprio operato. Ed è questo che appare come una ferita insanabile e, nello stesso tempo, un errore politico imperdonabile: aver permesso che la sfiducia, lo scoramento, il cinismo prendessero il sopravvento sulla capacità di creare progetti, di
immaginare il futuro e battersi per realizzarlo.
Il fenomeno non è nuovo. L’esistenza di sacche di familismo amorale nella società meridionale venne già postulato negli anni Cinquanta dal sociologo americano Edward Bansfield. Ma tutti avevamo sperato che la politica, la bella politica sarebbe intervenuta a correggere la tendenza popolare a rivolgersi al compariello invece che agli enti pubblici. Ci sbagliavamo. La fiducia nelle istituzioni è ridotta al lumicino, ci dice la ricerca. Ricostruire il rapporto lacerato tra i cittadini e il proprio gruppo dirigente appare sempre più difficile, quasi una missione impossibile. Ma è intorno a questo che si giocano i destini politici di un paese intero.
I nostri uomini politici non fanno altro che chiederci un atto di fiducia ad ogni legislatura, diceva Indro Montanelli: ma qui un atto di fiducia non basta più. Qui ormai occorre un atto di fede.