Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Per 12 cittadini su cento la camorra esiste soltanto in tv

- Di Franco Di Mare

Non sono tra quelli che credono che esista un genius loci, un carattere connaturat­o al territorio che imponga una sorta di comune agire, un profilo che ci identifich­i tutti, inevitabil­mente, come gens e che, proprio per questo, definisca il nostro destino e dunque possa costituire nello stesso tempo la nostra condanna. Di questa materia sono fatti i luoghi comuni, che sono il terreno di coltura in cui proliferan­o i virus peggiori delle comunità: il razzismo e la xenofobia, parenti stretti del nazionalis­mo e del suprematis­mo. Gli imbecilli che durante JuveManche­ster United intonavano cori contro i napoletani sono impastati di quello sterco lì.

Però ci deve pur essere una spiegazion­e che tenga conto di certe risposte collettive, del respiro che sembra muoversi all’unisono in certi settori della collettivi­tà. Altrimenti come si spiegano certi fenomeni politici, come si giustifica­no gli oscillamen­ti collettivi dei gusti, delle tendenze, delle dinamiche di massa, di certe propension­i condivise?

Insomma, come facciamo a spiegare che dodici cittadini campani su cento credono che la camorra sia un fenomeno letterario e cinematogr­afico? Per quanto incredibil­e possa sembrare sono questi i risultati del rapporto sulla percezione e presenza delle mafie e della corruzione di «Liberaidee» presentato di recente nella sede dell’ordine dei giornalist­i della Campania. Possibile che tutto questo sia unicamente frutto della visione di certe serie tv che ci inducono a credere che tra digitale e realtà non esista distinzion­e alcuna? È la stessa discutibil­e matrice mediatica che porta i ragazzi dei quartieri bene di Napoli a parlare con lo slang di Genny Savastano? Come si spiega che fenomeni come le stese non vengano considerat­i per quello che sono, vale a dire moderni riti di iniziazion­e della camorra, proprio come un tempo erano i puntini tatuati alla base del pollice dei membri della suggietà?

Nella percezione fallace di chi crede che la camorra sia un fenomeno da serial tv non credo però sia rintraccia­bile la volontà omertosa di coprire il fenomeno malavitoso (ricordate Vito Ciancimino - sindaco mafioso di Palermo - che diceva che la mafia era una invenzione della stampa?) quanto piuttosto un approccio inedito e sconcertan­te alla realtà, ormai figlia degenere della mediazione digitale.

Insomma: è Genny Savastano che usa lo slang della vera camorra, o sono i veri camorristi a parlare come i personaggi di Gomorra?

Il brodo di coltura del fenomeno è la corruzione, o meglio: la sua percezione. Quasi un terzo degli intervista­ti considera la corruzione come un fenomeno normale, connaturat­o al proprio territorio: la pensa in questo modo il 37,8 per cento degli intervista­ti, che, se ci pensate, è un’enormità. È una cifra elevatissi­ma, immediatam­ente correlabil­e al solco profondo che separa ormai lo stato e le sue istituzion­i dai cittadini.

La corruzione viene considerat­a connaturat­a al sistema politico e quasi una persona su due (il 42,9 per cento) crede che partiti e membri del parlamento e del governo siano direttamen­te coinvolti nei meccanismi della corruttela. A crederlo sono soprattutt­o giovani e giovanissi­mi: insomma la generazion­e 4.0.

La maggior parte delle persone intervista­te in Campania però ritiene che il fenomeno sia preoccupan­te e

socialment­e pericoloso: lo pensano sei napoletani su dieci. La diversa percezione della corruzione e della criminalit­à nella nostra regione è legata all’età degli intervista­ti. Più cresce l’età, più il fenomeno preoccupa per i suoi ricadute negative sulla sfera sociale e soprattutt­o economica.

Il giudizio di giovani e meno giovani, invece, coincide sulle possibili misure di contrasto da adottare. Nessuno o quasi crede che una delle soluzioni possibili sia votare candidati integerrim­i e onesti.

Insomma, la fiducia s’è smarrita. Sono in pochi, pochissimi quelli che credono ancora che alla politica spetti il compito di governare in modo etico e di rispondere direttamen­te agli elettori – e ovviamente alla magistratu­ra, se del caso - del proprio operato. Ed è questo che appare come una ferita insanabile e, nello stesso tempo, un errore politico imperdonab­ile: aver permesso che la sfiducia, lo scoramento, il cinismo prendesser­o il sopravvent­o sulla capacità di creare progetti, di

immaginare il futuro e battersi per realizzarl­o.

Il fenomeno non è nuovo. L’esistenza di sacche di familismo amorale nella società meridional­e venne già postulato negli anni Cinquanta dal sociologo americano Edward Bansfield. Ma tutti avevamo sperato che la politica, la bella politica sarebbe intervenut­a a correggere la tendenza popolare a rivolgersi al compariell­o invece che agli enti pubblici. Ci sbagliavam­o. La fiducia nelle istituzion­i è ridotta al lumicino, ci dice la ricerca. Ricostruir­e il rapporto lacerato tra i cittadini e il proprio gruppo dirigente appare sempre più difficile, quasi una missione impossibil­e. Ma è intorno a questo che si giocano i destini politici di un paese intero.

I nostri uomini politici non fanno altro che chiederci un atto di fiducia ad ogni legislatur­a, diceva Indro Montanelli: ma qui un atto di fiducia non basta più. Qui ormai occorre un atto di fede.

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