Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Nanni Strada, fashion designer: un abito è un’opera di architettura
La fashion designer ospite domani all’Abazia di San Lorenzo (Aversa), quinta tappa del ciclo d’incontri
Abitare gli abiti prima di abitare i luoghi. Si parla di moda e design nella «casa» del Corriere del Mezzogiorno che domani sarà, per un pomeriggio, l’Abazia di San Lorenzo ad Aversa. Nel chiostro maggiore di quest’antico sito monastico — sede del dipartimento di Architettura e Disegno industriale dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli — si trasferirà la redazione del quotidiano con la sua community di lettori.
Dopo quelli di Sant’Andrea delle Dame e di Santa Patrizia a Napoli, si tratta del terzo chiostro svelato dal ciclo di incontri CasaCorriere che, facendone scenario del suo talk, ne mostrerà il restauro in anteprima.
Per l’occasione sarà inaugurata l’istallazione a cura del Dadi e degli allievi dei corsi di Laurea in Design per la Moda e Magistrale in Design per l’Innovazione curriculum Fashion Eco Design.
Il tema, Design, moda, ambiente e sostenibilità, tra formazione e nuove tecnologie,
sarà declinato dagli ospiti che converseranno con il direttore del Corriere del Mezzogiorno
Enzo d’Errico: Giuseppe Paolisso, rettore dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli; Sylvio Giardina, designer e visual artist; Maria Giovanna Paone, vicepresidente e ad Maison Kiton; Sana Lavroff, cultural manager e Nanni Strada, fashion designer milanese che ha introdotto il linguaggio del progetto nella creazione di moda. Premiata con il Compasso d’Oro, fin dagli anni Settanta ha sviluppato una ricerca trasversale a contatto con il mondo della produzione, dell’innovazione tecnologica e della sperimentazione industriale.
«Il mio è un percorso anomalo rispetto agli altri stilisti» dice, e il suo racconto è un viaggio in un’altra Italia, quella del boom economico e della rivoluzione culturale. «Ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare negli anni Sessanta, così gravidi di cambiamenti e ribellione. Non potevo che disobbedire alla tradizione». Come è iniziato tutto? «Da ragazzina ero una disegnatrice compulsiva e i miei genitori mi iscrissero a una scuola per figurinisti. All’epoca il ruolo dei disegnatori di moda era distinto da quello dello stilista. I disegnatori tout court erano illustratori o vignettisti e io cercavo una strada per esprimere me stessa e la
La carriera
Il mio è un percorso anomalo rispetto agli altri stilisti. Ho iniziato a lavorare negli Anni 60: disobedii alla tradizione
L’impresa All’epoca ero affascinata dalla fabbrica come luogo democratico della creazione, quella che non delocalizzava all’estero
mia passione per i materiali di tutti i generi che si coniugava con quella per la matita». E tra i primi ci fu Fiorucci. «Disegnai delle scarpe con tacco in perspex (metacrilato), completamente trasparente».
Potrebbe averle disegnate oggi. «Sì, ero totalmente fuori ogni schema. Per la prima collezione di Cadette, disegnai un vestito in jersey che aveva per ricamo le decorazioni dei carretti siciliani con carta stagnola e cordoncino, il tutto su un abito elegante».
L’etnico primo dell’etnico. Tutto era possibile negli anni Sessanta. «Lo era. Le spiego con un’immagine: vidi lo sbarco sulla Luna da una piccola tv in bianco e nero mentre ero in vacanza in Messico. Se l’uomo era arrivato lì, in molti pensammo che allora tutto era possibile anche per noi. E cercammo le plastiche: i vestiti di sartoria mi parvero rivestimenti di poltrone. E fummo aiutati da una generazione di professionisti e artigiani che cercavano il nuovo ed erano pronti a sperimentare. Ero reduce dalla Calif0rnia: avevo respirato l’aria della contestazione. Facevo parte anche io di quella schiera di giovani che sfilavano per la libertà. Tutto era denso rinnovamento, dall’arte alla musica. Tornai a Milano e giravo con una minigonna corta tre dita sopra le ginocchia: venivo additata da tutti».
Eppure Milano era una città che intercettò subito le novità. «A metà dei Sessanta c’era gente come un giovane Oliviero Toscani con grande voglia di sperimentare. Se chiedevi a un artigiano di aiutarti nella rea- lizzazione di un’idea, quello ti seguiva. Da tutto questo è nato poi il “fenomeno” degli stilisti. Hanno iniziato Missoni e Krizia che avevano già alle spalle imprese poi sono venuti Armani, Versace... la Milano della moda. E io ho preso un’altra strada». Quale? «Non ero interessata al look. I giornalisti mi chiedevano: che donna vede per l’anno prossimo? Non sapevo rispondere. Per me un abito deve dare libertà a un corpo libero: io sono libera. Non m’importa della “donna romantica” o “in carriera”. In più il sistema della sartoria, così classista e così ben raccontato dal film Il filo nascosto, non faceva per me. E ho fatto tutto il contrario».
Cioè? «Ero affascinata dalla fabbrica come luogo democratico della creazione, quella che ancora non delocalizzava il lavoro. Parlo di Max Mara per la quale ho cambiato il dna del cappotto. Le cuciture erano saldature, il mio pensiero era: abitare l’abito. Ecco il ponte con l’architettura. Il vestito è il primo spazio nel quale stiamo».
Come ha tradotto tutto questo in «lectio»? «Non avrei mai pensato di insegnare. Proprio io, l’antiaccademica per eccellenza, allieva ribelle dal percorso accidentato».
E poi c’è stato l’Oriente. «Ho avuto la fortuna di lavorare in Giappone negli anni Ottanta, quando il nostro agente era nipote dell’imperatore. È stata un’esperienza fondativa. Mi piacerà raccontarla a CasaCorriere che ha un tema nel quale mi sento particolarmente a “casa”».