Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il campione e il ragazzo Tennis, la sfida è servita
L’ex campione al tramonto poteva fare affidamento su un amico, alla reception. Si trattava dell’unico hotel, in tutto il circondario, con annessi dei campi in terra battuta. Inevitabilmente gli iscritti al torneo avevano finito per disputarsi una camera in quell’albergo dall’opulento gusto balneare e primo novecentesco. Lui, il tennista a fine carriera, aveva preferito ripiegare su una sistemazione meno sontuosa e costosa. Dopodiché ora si ritrovava qui, al Grand Hotel, per una finalità ben precisa.
«È un favore solo per te», aveva rimarcato il concierge, un estimatore dei vecchi tempi, «La terrazza sarebbe ad uso esclusivo degli ospiti».
L’ex campione, fra qualche mese anche ex tennista, ebbe un cenno di assenso che, per un uomo orgoglioso come lui, incorporava anche un ringraziamento (non era mai stato tipo da profondersi in salamelecchi). Il vecchio tennista, una volta in terrazza, aveva individuato subito il punto d’osservazione ideale: un tavolino d’angolo poco esposto, ma con un’eccellente visuale rispetto al campo attualmente occupato nonostante l’ora mattutina. Questi schiocchi tonanti della pallina sulle incordature; quel suono elastico, melodioso, implacabile che il tennista risentiva anche nel sonno limbico... Lui aveva terminali ovunque, nell’ambiente. Così l’avevano informato che il ragazzo si sarebbe allenato un paio di orette, esattamente in quell’orario. Non un semplice palleggiare, a quanto pareva, ma un incontro giocato con un certo spirito agonistico (il ragazzo voleva sempre vincere e strafare). Lo sparring partner della giovane promessa, anche questo gli avevano spifferato, era stato procacciato dal compiacente circolo locale. Tappeti rossi agli emergenti in classifica, pensò l’ex campione facendo scrocchiare le dita. Certo, lui avrebbe potuto studiare comodamente il suo avversario ripassando qualche video su YouTube o ricorrendo alla memoria. Palliativi. Surrogati. Se voleva realmente esorcizzare l’ansia che gli serpeggiava qui, fra braccia e gambe, doveva sezionare l’avversario così, dal vivo.
«Il ragazzino picchia duro, eh?».
Quest’inflessione emiliana – sapida, pastosa – sorta d’improvviso alle sue spalle. Giuliano Santomassimo era il decano, fra i giornalisti al seguito dei tornei. Una memoria vivente, un intenditore eloquente e inappellabile. Una penna tutt’altro che ostile alla vecchia gloria (anche per una solidarietà generazionale, non è escluso). «Che ci fai qui?». L’anziano tennista, quando credeva di trovarsi con le spalle al muro, diventava sfrontato (anziano... In realtà aveva solo trentaquattro anni, pur sentendosi plurisecolare come una quercia). Santomassimo rise, apertamente.
«Io? Che razza di domanda! Io qui ho una camera, per tutto il torneo. A differenza tua, mi sono informato».
Santomassimo gli aveva piantato due occhi sagaci nelle pupille.
«Tu, piuttosto... Che ci fai tu qui. A quest’ora».
Una domanda retorica, a cui perciò il tennista non era tenuto a rispondere. Il motivo stava lì: nei fatti, lampante. Il campioncino copriva a meraviglia l’intera ampiezza del campo. Dalla terrazza si sentiva lo scivolio delle frenate sulla terra rossa, il viaggiare come un proiettile della palla a scheggiare le linee bianche. Quel ragazzo sembrava instancabile. Dunque minaccioso.
«Ha tredici anni meno di te. È presto detto».
Al vecchio tennista questa constatazione arrivò con una sfumatura di sentenza, di sentenza capitale. Il giornalista ridacchiò, vedendo che l’altro si accigliava.
«Lasciami finire... Avrà anche tredici anni meno di te, ma puoi batterlo».
L’ex campione stava soffermandosi sul ragazzo che si era predisposto a ribattere il servizio dell’avversario. Quella selva di capelli ondulati; quella specie di broncio che incantava le sue fan intergenerazionali; la giovinezza come vitalità disarmante. Ottima risposta al servizio: un tracciante lungo-linea che aveva pietrificato l’altro giocatore.
«Sono serio. Non ti farei mai il torto di consolarti», Santomassimo parlava con l’inflessione del suo dialetto (e in dialetto non si mente).
«Sul serio, amico mio. E parlo talmente sul serio che ho scommesso su di te, per domani».
Quindi Santomassimo puntava... Perché non avrebbe dovuto, del resto? Metteva semplicemente a frutto un bagaglio di conoscenze sterminate.
«Ho scommesso soldi veri. Quindi, domani, mi farai la cortesia di scendere in campo tranquillo. Con la piena coscienza che puoi farcela».
Un bicchiere con del liquido opalino era comparso, come dal nulla, fra le mani di Santomassimo.
«La sai una cosa? In realtà sono convinto che tu, domani, non dovrai fare quasi niente. Voglio dire: la tua onesta partita e basta».
Il ragazzo, intanto, si avventava su ogni palla, su ogni singolo punto di un match puramente accademico. Sentiva addosso la frenesia di dover inventare, ogni volta, la giocata pirotecnica. Il colpo che annichiliva l’avversario in modo spettacolare e, nello stesso punto, stregava il pubblico.
«In fondo lo sai benissimo anche tu. Lo vedi con i tuoi occhi: il ragazzo si prende dei rischi assurdi su ogni punto. Non aspetta. Deve chiudere il game subito e, soprattutto, alla sua maniera. Hai visto anche adesso? Non sa aspettare».
Santomassimo pareva trionfante; gli occhi luccicavano sotto le palpebre grinzose.
«Hai visto, no? Ancora non ha la pazienza di aspettare che l’avversario sbagli. È un immaturo».
«È un puledrino», mormorò a se stesso, e senza astio, l’ex campione.
«Appunto! Mentre tu sei un vecchi stallone, va’!».
L’incoraggiante buffetto del giornalista sulla gamba dell’altro (erano due veterani, in fondo).
«Ascolta. Quello si ucciderà da solo, domani».
Peccato, si disse il vecchio tennista. Il ragazzo aveva da poco compiuto i venti. Lui invece si portava sulla groppa trentaquattro anni che andavano moltiplicati per due, poiché si era sottoposto, in quel lasso di tempo, ad una brutale e massacrante autodisciplina. Come un automa.
Peccato, si disse. Il ragazzo aveva un’ottima impostazione, più la capacità di bruciare l’avversario nell’anticipo dei colpi.
«La penso anch’io come te», proclamò il tennista a voce troppo alta. Gli organizzatori lo avevano invitato con una wild card, memori del suo passato. Ora non poteva farsi sbattere fuori, al primo turno, da un moccioso.
«Mai farsi umiliare. La carriera è agli sgoccioli?», si disse l’ex campione, «Benissimo. Io, però, voglio essere sepolto con l’onore delle armi».
Certo, rifletteva Santomassimo, al tennis non sa mai come può finire. Anche ai più collaudati il braccio può venire meno. E tradirli, da un momento all’altro.
” Al vecchio tennista la constatazione della gioventù dell’avversario arrivò con una sfumatura di sentenza capitale. Il giornalista ridacchiò, vedendo che l’altro si accigliava