Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Aboliamo le Regioni, rifondiamo il Mezzogiorno
La fine legale del Banco di Napoli, che avverrà domani, è un simbolo eloquente del declino della questione meridionale. Fu infatti proprio con l’Unità d’Italia che il Banco, di antichissime origini, assunse il nome attuale e diventò istituto di emissione del Regno d’Italia, stampando banconote per sessant’anni. Nel 1861, evidentemente, il dibattito su come integrare il Mezzogiorno nella nascente nazione era più vivace di oggi. Il divario Nord-Sud ha invece da tempo ripreso a peggiorare. Il nostro tessuto è diventato così debole che ogni colpo che prende l’Italia noi lo prendiamo doppio.
Già i primi indicatori ci dicono che la stagione dello spread alto, inaugurata dal governo giallo-verde, sta provocando al Sud prima che altrove un credit crunch, strangolando i segnali di crescita. Un tempo questo avrebbe provocato un allarme. Oggi ne parlano solo pochi addetti ai lavori. Che cosa è successo? Quando, e perché, il Sud ha smesso di stare nell’agenda politica nazionale? Vorrei proporre un’ipotesi di risposta.
A differenza di quanti pensano che i guai del Mezzogiorno derivino dal centralismo dello Stato nazionale, io credo invece che nascano proprio dal suo indebolimento. Quando lo Stato unitario è stato forte e attivo, il Mezzogiorno
ne ha tratto benefici. Con tutti i loro errori, le stagioni del Risanamento urbanistico di Napoli del 1885 e della industrializzazione di Bagnoli nel 1904, e nel dopoguerra l’epoca dell’intervento straordinario, hanno certamente contribuito a modernizzare il Sud.
È invece, a mio parere, con la nascita delle Regioni nel 1970 e ancor di più con il varo del federalismo fiscale su base regionale, avviata nel 2009, che il Mezzogiorno scompare dai radar.
Le Regioni meridionali sono state un fallimento. I casi in cui una politica regionale è stata in grado di fare davvero la differenza si contano sulle dita di una mano. Per il resto hanno portato al Sud solo la frammentazione e la moltiplicazione di ceti politici inetti e talvolta famelici. Ad un uso disinvolto e clientelare della spesa pubblica si deve anzi attribuire parte della colpa di avere creato nel resto del Paese quel rigetto abilmente sfruttato agli inizi degli anni ‘90 dalla Lega, che ha trasformato in senso comune la nefasta retorica dei soldi del Nord che non dovevano
andare più al Sud.
Dei guasti poi che l’applicazione del federalismo fiscale sta provocando nelle nostre regioni, ben testimonia il recente saggio di Marco Esposito, provocatoriamente titolato Zero al Sud, che racconta come sia stato possibile che l’assenza di servizi in tanti comuni meridionali sia diventata paradossalmente la base per stabilire che il loro fabbisogno standard di asili nido o mense scolastiche era, per l’appunto, pari a zero, e che dunque nessuna risorsa doveva essere garantita a chi già non aveva nulla.
Le Regioni del Sud sono state insomma il grande alibi per far fuori il Sud, oltre ad aver sprecato per inefficienza investimenti e occasioni come quella dei fondi europei.
Ho dunque molto apprezzato la ricerca, appena pubblicata dalla Fondazione Magna Charta, che contiene una proposta assolutamente rivoluzionaria: mettere fine alle Regioni. L’idea del gruppo di studio che ha realizzato la ricerca, coordinato da Gaetano Quagliariello, è la nascita di un’unica macro-Regione
meridionale, che comprenda le attuali sei Regioni continentali del Sud. Naturalmente il processo di accorpamento dovrebbe valere anche per il resto d’Italia (le macro-Regioni dovrebbero essere in totale da un minimo di quattro a un massimo di sei). E bisognerebbe rilanciare come ente intermedio le Provincie, usate come capro espiatorio dalla legge Del Rio, che le ha private di vita, di democrazia e di fondi, in attesa di una soppressione mia avvenuta, così che ora sono gusci vuoti che non riescono più a garantire i servizi in capo a loro come la manutenzione della rete viaria o la messa in sicurezza delle scuole.
Un’unica macro-Regione vorrebbe dire un’unica classe politica più matura, perché dotata di una palestra per confrontarsi con la dimensione nazionale dei problemi. Vorrebbe dire parlare a Roma con un’unica voce, più o meno come stanno di fatto operando le Regioni del Nord, che già agiscono ormai come macro-Regione e che insieme, Veneto, Lombardia ed Emilia, stanno contrattando il federalismo differenziato: un altro potenziale colpo per un Sud che va invece in ordine sparso a implorare il potente di turno nella capitale. Vorrebbe dire dotarsi di un’Agenzia unica capace di programmazione economica e finanziaria di tutte le risorse private e pubbliche, nazionali ed europee. Le quali non mancano: solo quelle previste nel piano europeo 2014-2020 ammontano nel complesso a 55 miliardi. È il nostro perverso intreccio di poteri e di controlli, di burocrazia e di clientele, che ci impedisce di sfruttarle per la crescita.
Il regionalismo italiano è datato. Il federalismo con cui dobbiamo fare i conti oggi è piuttosto quello europeo. Il debito pubblico italiano è esploso, guarda caso, con la nascita delle Regioni. È ora di ripensarci. E il Mezzogiorno avrebbe tutta la convenienza di fare sua questa battaglia, dando così un obiettivo e un orizzonte a una protesta che altrimenti rischia di restare solo rivendicazione e recriminazione.