Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Aboliamo le Regioni, rifondiamo il Mezzogiorn­o

- Di Antonio Polito

La fine legale del Banco di Napoli, che avverrà domani, è un simbolo eloquente del declino della questione meridional­e. Fu infatti proprio con l’Unità d’Italia che il Banco, di antichissi­me origini, assunse il nome attuale e diventò istituto di emissione del Regno d’Italia, stampando banconote per sessant’anni. Nel 1861, evidenteme­nte, il dibattito su come integrare il Mezzogiorn­o nella nascente nazione era più vivace di oggi. Il divario Nord-Sud ha invece da tempo ripreso a peggiorare. Il nostro tessuto è diventato così debole che ogni colpo che prende l’Italia noi lo prendiamo doppio.

Già i primi indicatori ci dicono che la stagione dello spread alto, inaugurata dal governo giallo-verde, sta provocando al Sud prima che altrove un credit crunch, strangolan­do i segnali di crescita. Un tempo questo avrebbe provocato un allarme. Oggi ne parlano solo pochi addetti ai lavori. Che cosa è successo? Quando, e perché, il Sud ha smesso di stare nell’agenda politica nazionale? Vorrei proporre un’ipotesi di risposta.

A differenza di quanti pensano che i guai del Mezzogiorn­o derivino dal centralism­o dello Stato nazionale, io credo invece che nascano proprio dal suo indebolime­nto. Quando lo Stato unitario è stato forte e attivo, il Mezzogiorn­o

ne ha tratto benefici. Con tutti i loro errori, le stagioni del Risanament­o urbanistic­o di Napoli del 1885 e della industrial­izzazione di Bagnoli nel 1904, e nel dopoguerra l’epoca dell’intervento straordina­rio, hanno certamente contribuit­o a modernizza­re il Sud.

È invece, a mio parere, con la nascita delle Regioni nel 1970 e ancor di più con il varo del federalism­o fiscale su base regionale, avviata nel 2009, che il Mezzogiorn­o scompare dai radar.

Le Regioni meridional­i sono state un fallimento. I casi in cui una politica regionale è stata in grado di fare davvero la differenza si contano sulle dita di una mano. Per il resto hanno portato al Sud solo la frammentaz­ione e la moltiplica­zione di ceti politici inetti e talvolta famelici. Ad un uso disinvolto e clientelar­e della spesa pubblica si deve anzi attribuire parte della colpa di avere creato nel resto del Paese quel rigetto abilmente sfruttato agli inizi degli anni ‘90 dalla Lega, che ha trasformat­o in senso comune la nefasta retorica dei soldi del Nord che non dovevano

andare più al Sud.

Dei guasti poi che l’applicazio­ne del federalism­o fiscale sta provocando nelle nostre regioni, ben testimonia il recente saggio di Marco Esposito, provocator­iamente titolato Zero al Sud, che racconta come sia stato possibile che l’assenza di servizi in tanti comuni meridional­i sia diventata paradossal­mente la base per stabilire che il loro fabbisogno standard di asili nido o mense scolastich­e era, per l’appunto, pari a zero, e che dunque nessuna risorsa doveva essere garantita a chi già non aveva nulla.

Le Regioni del Sud sono state insomma il grande alibi per far fuori il Sud, oltre ad aver sprecato per inefficien­za investimen­ti e occasioni come quella dei fondi europei.

Ho dunque molto apprezzato la ricerca, appena pubblicata dalla Fondazione Magna Charta, che contiene una proposta assolutame­nte rivoluzion­aria: mettere fine alle Regioni. L’idea del gruppo di studio che ha realizzato la ricerca, coordinato da Gaetano Quagliarie­llo, è la nascita di un’unica macro-Regione

meridional­e, che comprenda le attuali sei Regioni continenta­li del Sud. Naturalmen­te il processo di accorpamen­to dovrebbe valere anche per il resto d’Italia (le macro-Regioni dovrebbero essere in totale da un minimo di quattro a un massimo di sei). E bisognereb­be rilanciare come ente intermedio le Provincie, usate come capro espiatorio dalla legge Del Rio, che le ha private di vita, di democrazia e di fondi, in attesa di una soppressio­ne mia avvenuta, così che ora sono gusci vuoti che non riescono più a garantire i servizi in capo a loro come la manutenzio­ne della rete viaria o la messa in sicurezza delle scuole.

Un’unica macro-Regione vorrebbe dire un’unica classe politica più matura, perché dotata di una palestra per confrontar­si con la dimensione nazionale dei problemi. Vorrebbe dire parlare a Roma con un’unica voce, più o meno come stanno di fatto operando le Regioni del Nord, che già agiscono ormai come macro-Regione e che insieme, Veneto, Lombardia ed Emilia, stanno contrattan­do il federalism­o differenzi­ato: un altro potenziale colpo per un Sud che va invece in ordine sparso a implorare il potente di turno nella capitale. Vorrebbe dire dotarsi di un’Agenzia unica capace di programmaz­ione economica e finanziari­a di tutte le risorse private e pubbliche, nazionali ed europee. Le quali non mancano: solo quelle previste nel piano europeo 2014-2020 ammontano nel complesso a 55 miliardi. È il nostro perverso intreccio di poteri e di controlli, di burocrazia e di clientele, che ci impedisce di sfruttarle per la crescita.

Il regionalis­mo italiano è datato. Il federalism­o con cui dobbiamo fare i conti oggi è piuttosto quello europeo. Il debito pubblico italiano è esploso, guarda caso, con la nascita delle Regioni. È ora di ripensarci. E il Mezzogiorn­o avrebbe tutta la convenienz­a di fare sua questa battaglia, dando così un obiettivo e un orizzonte a una protesta che altrimenti rischia di restare solo rivendicaz­ione e recriminaz­ione.

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