Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Cesco dell’Eremo», evoluzione del Falanghina
Ivini cambiano, si adeguano al gusto dei consumatori. Più volte, ho sottolineato la tendenza di mercato sempre più netta a privilegiare vini facilmente decodificabili e immediati. Il Cesco dell’Eremo, della mai troppo celebrata Cantina del Taburno, ha conosciuto nel tempo un processo di piccola ma evidente trasformazione. La novità principale riguarda il rapporto con il legno di questa selezione di Falanghina. Il nome non indica un cru in senso stretto. Cesco nel dialetto dei contadini sanniti è una grande pietra. E una grande pietra è appunto la montagna, antistante l’azienda di Foglianise, che ospita una chiesetta e l’eremo di San Michele. Dicevo del mutato rapporto con il legno, meno lungo e pregnante: il vino ha acquistato agilità e slancio, senza perdere quell’importanza, rispetto al pur ottimo prodotto base, che deriva principalmente dalla qualità della materia prima utilizzata. Naturalmente l’ultima parola sulle questioni tecniche appartiene al professore Luigi Moio che col fido enologo interno Filippo Colandrea incarna la gloriosa storia dell’ultimo ventennio dell’azienda, che recentemente ha perso l’apporto dell’ottimo direttore Nicola De Girolamo per raggiunti limiti d’età. Com’è? Si presenta con un colore paglierino non troppo carico, limpido e molto concentrato. Anche se la temperatura di servizio è più bassa di 2-3 gradi rispetto a quella giusta (8-10), il bouquet appare comunque abbastanza definito. Insinuanti, ma non svenevoli, le note floreali (biancospino), frizzanti quelle di agrumi. Poi escono fuori anche i sentori di frutta gialla matura, in un contesto di grande finezza. L’equilibrio gustativo è notevole, freschezza e leggera mineralità proiettano il vino, oltre il lungo, contingente finale, verso un‘evoluzione interessante. Sui paccheri con ragù di cernia, trancio di ricciola o alalunga scottata, carpaccio di Fassona.