Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Confiscata da venti anni ma inutilizzata» Il mistero di villa Scarface
Schiavone la volle come nel film, ora Roberti accusa
NAPOLI
C’è chi quella villa l’ha eletta a simbolo dello sfarzo - e quindi della potenza – dei clan casalesi. C’è chi da quello sfarzo si è lasciato intimorire, chi ne è rimasto estasiato, chi invece ha messo subito le cose in chiaro liberandosi la vescica al suo interno, come racconta di aver fatto Saviano nel suo “Gomorra”. Altri ancora, come chi scrive, hanno intravisto in quegli stucchi così pacchiani, in quegli arredi così tamarri, la cifra stessa della ridicolaggine dei boss: la loro carta d’identità, per così dire. La povertà estetica delle menti che la fecero erigere (una povertà che non cammina, evidentemente, di pari passo con quella economica) è in fondo il biglietto da visita più chiaro e immediato che certi personaggi possano consegnare all’opinione pubblica.
La villa di Walter Schiavone, quell’obbrobrio architettonico di cui parla l’ex procuratore nazionale antimafia – oggi assessore campano alla Legalità - Franco Roberti, lamentandone il mancato avviamento come centro riabilitativo per persone disabili dopo ben due inaugurazioni, è certamente un’icona, in qualsiasi senso la si voglia considerare. Il “padrino” la fece costruire identica a quella di Scarface per darsi un tono da gangster. Peccato che di solito, almeno a rigor di logica, sia il cinema a prendere come modello la realtà, non il contrario. Quando il processo s’inverte – e disgraziatamente capita spesso – vuol dire che qualche ingranaggio, in qualche testa, si è inceppato. È chiaro a tutti da dove nasca l’esibizione di uno sfarzo così stomachevole: dall’ammissione stessa della propria condizione di reietti. Così come il grande pugile Mike Tyson, una volta diventato «Iron Mike» diede il via al fenomeno del gangsta rap sfoggiando costosissimi gioielli d’oro, improbabili Limousine, e spingendosi addirittura a lanciare banconote alla gente per «riscattarsi» dalla sua precedente condizione di emarginato, così i padrini dell’entroterra campano vorrebbero compensare con vasche idromassaggio e poltrone settecentesche (… sic!) la propria manifesta – e stavolta sì, reale – inferiorità.
Potremmo dire, quindi, senza compiere un salto logico troppo grande, che quella villa è un simbolo della loro stupidità, della loro mancanza di gusto, della loro necessità di esibire per sentirsi qualcuno. È uno scontatissimo monumento all’idiozia. Idiozia che nel caso di «Iron Mike» era quantomeno compensata dalle straordinarie doti atletiche (e fu comunque oggetto, negli anni successivi, di un mea culpa) mentre nel caso di “Villa Scarface” l’idiozia non ha alcuna contropartita, ergendosi a protezione del vuoto assoluto.
Confiscata vent’anni fa, l’abitazione è finita in «Gomorra», poi nell’omonimo film di Matteo Garrone, poi è stata inaugurata due volte. Affidata per la ristrutturazione al consorzio Agrorinasce, fu salutata dallo stesso Roberti, nel gennaio 2017, come una splendida possibilità di creare un centro per persone disabili gestito dall’Asl di Caserta. Un’occasione per lo Stato di riprendersi lo spazio rubatogli dai clan. Di riguadagnare terreno. E invece è ancora lì, e non certo per i cittadini.
Più volte le istituzioni campane hanno dichiarato che recuperare un bene sottratto alla criminalità costa spesso cifre molto superiori a quelle che si potrebbero ricavare con il suo riutilizzo. Ipotizziamo che sia questo il caso, e che per riappropriarsi di quegli spazi, aprirli alla gente - umiliando così lo stemma della “casata” Schiavone – costi qualche soldo di troppo. Mettiamo che l’apertura del centro possa richiedere un certo sacrificio economico: esiste qualche dubbio sul fatto che ne valga la pena?