Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Munari l’umanista in mostra al Plart
Un Bruno Munari nel suo abito migliore di artista, che ha saputo utilizzare le scienze, dalla matematica alla fisica, per sperimentare un proprio linguaggio visivo sempre in anticipo sui tempi. Lo ammireranno i visitatori napoletani al Plart, organizzatore dell’evento insieme al Progetto XXI del Madre a partire da domani sera, in occasione del ventennale della scomparsa del maestro milanese.
Nel Museo della Plastica diretto da Maria Pia Incutti, i curatori Marcello Francolini e Miroslava Hajek hanno raccolto un ciclo di 27 opere che vanno dagli anni ‘30 alla fine degli anni ‘50, con la dovuta eccezione di «Flex», realizzazione in plastica del 1968. Ne emerge un percorso significativo dell’evoluzione di questo originale maestro della ricerca percettiva, che ha spaziato dalla pittura alla scultura, dal cinema al disegno industriale, dalla grafica alla scrittura, dalla poesia alla didattica e alla pedagogia. Figura, quindi, complessa e neoumanistica, qui fissata però nelle premesse fondamentali che si sarebbero più tardi riverberate in tutti i campi del suo multiforme operare.
La mostra si intitola «Munari. I Colori della Luce» e affronta il percorso che dagli esordi futuristi lo porterà nel dopoguerra a lavorare sulla costruzione luministica, immateriale e quindi ambientale. «Abbiamo diviso – spiega Francolini – l’itinerario in tre fasi cronologiche: la prima è quella riconducibile alle “Macchine inutili” futuriste della fine degli anni ’30, la seconda quella del “Concavo e Convesso” della metà degli anni ’40, e infine la terza dell’ “Ambiente a luce polarizzata”, degli anni ‘50, in cui l’opera si smaterializza irradiandosi attraverso la luce sulle pareti, prima fissata sul vetrino e poi polarizzata». Tutte tappe di un viaggio che partendo dall’idea dinamica del Futurismo, pagina sulla quale Munari in passato ha glissato per evitare facili accostamenti alle teorie superomistiche e nazionalistiche di Marinetti poi condivise dal fascismo, delineano sempre più un precorritore dell’arte installativa, insieme ottica e concettuale. Per esempio come accade con la «Macchina inutile» del 1934, ovvero un guscio di zucca secca, appoggiata su un tripode di bacchette di legno, con parti mobili in alluminio che girando, sospinte dal vento, fanno da sfondo alla sfera rossa. O in «Concavo-convesso», ricostruito per l’occasione nella sua completa relazione spaziale, un lavoro che Munari espose per la prima volta nel 1946 a Parigi, ovvero una nuvola fatta con una rete metallica quadrata, sorta di vuoto racchiuso nella sua forma, che rappresentò una delle prime installazioni nella storia dell’arte italiana, e che tornò dalla Francia piegata e danneggiata, e quindi ricostruita l’anno dopo. Gli «Ambienti a luce polarizzata» sono invece l’approdo conclusivo del percorso, perché giungono finalmente a smaterializzare l’oggetto, creando quell’attualissima virtualità, figlia della rotazione di un filtro Polaroid davanti alla lampada della proiezione. La lente polarizzata possiede infatti una struttura a cristalli microscopici che funge da filtro per tutte quelle frequenze che non attraversano in modo perpendicolare il materiale. «Un ciclo quello esposto al Plart – conclude Francolini – che definisce meglio, precede o accompagna, i passaggi salienti dell’attività di Munari”. Che nel dopoguerra vanno dalla ricerca cinetica all’Arte programmata e al Mac, il movimento di arte concreta fondato con Atanasio Soldati e Gillo Dorfles», che ebbe anche una robusta colonna napoletana formata da Renato Barisani, Renato De Fusco, Guido Tatafiore, Antonio Venditti, Edoardo Giordano e Andrea Bizanzio.