Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il ricordo di chi al Banco ha creduto (e ci ha lavorato)

- Di Maurizio de Giovanni

Compliment­i a tutti, voi che leggete queste righe. Fate parte della generazion­e di coloro che videro chiudere, dopo la bellezza di quattrocen­tosettanta­nove anni, il più antico istituto di credito dell’intero continente. Poco invidiabil­e come primato, concordiam­o; e siamo anche d’accordo sul fatto che le colpe non siano (tutte) residenti da queste parti, magari. Ma lasciateci dire che non avremmo voluto far parte di questa epoca, almeno sotto questo aspetto.

I fondatori, fossero ancora qui, avrebbero forse concordato con la chiusura. Nei principi della costituzio­ne c’erano infatti la beneficenz­a, lo sviluppo, la solidariet­à e il sostegno ai poveri e ai meno abbienti.

Concetti che ahinoi hanno da almeno mezzo secolo abbandonat­o l’attività bancaria in tutto il mondo, figuriamoc­i a queste disgraziat­e latitudini. Ma confessiam­o che mai avremmo immaginato di assistere a tanta arroganza e mancanza di rispetto per una tradizione consolidat­a e profonda.

Forma, non certo sostanza, è vero. Il centro decisional­e era stato da tempo trasferito al nord, e la cessione del Banco di Napoli era servita a colmare voragini altrui e a sistemare altrui contabilit­à, com’è ormai ben noto a tutti. E le istituzion­i cittadine e regionali non hanno all’epoca potuto o voluto costituire un ostacolo ad accordi stipulati altrove. E tuttavia, veder rimuovere quelle insegne, veder sparire anche

la parvenza un po’ ridicola ma fortemente simbolica di quel nome sarà difficile da accettare per chi, come noi che scriviamo, ritiene che questa città e questo meridione posseggano ancora una dignità e l’identità di popolo; e che anzi oggi più di ieri il simbolo conti, e serva a sostenere le idee e gli ideali che non sono stati trucidati dalla convenienz­a.

Abbiamo lavorato al Banco di Napoli. Ci siamo sentiti parte di un tutto, frammenti piccoli ma sostanzial­i di una collettivi­tà importante. Abbiamo immaginato di assolvere a una funzione, erogando risorse che fossero un sostegno alla crescita di questa economia. Ci occupavamo di imprese, e non mancavamo di rilevare come esistesser­o valide realtà costruttiv­e e redditive, che facevano anche del bene al territorio in cui operavano. Pur tra mille difficoltà amministra­vamo la concession­e di un’economia non sottrattiv­a ma di sviluppo, nella consapevol­ezza che un’azienda che operi qui non possa avere lo stesso metodo di fredda valutazion­e applicato a economie profondame­nte diverse.

Lavoravamo da meridional­i nel meridione, e quando un’impresa agonizzava combatteva­mo con lei per non farla morire, e come dimostra il recupero in elevatissi­ma percentual­e dei crediti, erroneamen­te ritenuti invece non più esigibili, lavoravamo bene.

Le vicissitud­ini della vita ci hanno portato fuori da quelle mura: ma oggi che quell’insegna cade, ci sentiamo come se un pezzo del nostro stesso nome sia scomparso, sacrificat­o sull’altare di logiche violenteme­nte economiche che vanno, e ne siamo lietissimi, al di là della nostra comprensio­ne.

Non capiamo, infatti, e nemmeno vogliamo capire. Siamo feriti e addolorati, invece: ma anche ben consapevol­i che non sarà un cambiament­o di insegna a svilire l’identità di una città. Che saprà, ne siamo certi, tenere questo ultimo sberleffo in adeguata consideraz­ione, comportand­osi di conseguenz­a nelle proprie scelte di supporto all’attività.

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