Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il ricordo di chi al Banco ha creduto (e ci ha lavorato)
Complimenti a tutti, voi che leggete queste righe. Fate parte della generazione di coloro che videro chiudere, dopo la bellezza di quattrocentosettantanove anni, il più antico istituto di credito dell’intero continente. Poco invidiabile come primato, concordiamo; e siamo anche d’accordo sul fatto che le colpe non siano (tutte) residenti da queste parti, magari. Ma lasciateci dire che non avremmo voluto far parte di questa epoca, almeno sotto questo aspetto.
I fondatori, fossero ancora qui, avrebbero forse concordato con la chiusura. Nei principi della costituzione c’erano infatti la beneficenza, lo sviluppo, la solidarietà e il sostegno ai poveri e ai meno abbienti.
Concetti che ahinoi hanno da almeno mezzo secolo abbandonato l’attività bancaria in tutto il mondo, figuriamoci a queste disgraziate latitudini. Ma confessiamo che mai avremmo immaginato di assistere a tanta arroganza e mancanza di rispetto per una tradizione consolidata e profonda.
Forma, non certo sostanza, è vero. Il centro decisionale era stato da tempo trasferito al nord, e la cessione del Banco di Napoli era servita a colmare voragini altrui e a sistemare altrui contabilità, com’è ormai ben noto a tutti. E le istituzioni cittadine e regionali non hanno all’epoca potuto o voluto costituire un ostacolo ad accordi stipulati altrove. E tuttavia, veder rimuovere quelle insegne, veder sparire anche
la parvenza un po’ ridicola ma fortemente simbolica di quel nome sarà difficile da accettare per chi, come noi che scriviamo, ritiene che questa città e questo meridione posseggano ancora una dignità e l’identità di popolo; e che anzi oggi più di ieri il simbolo conti, e serva a sostenere le idee e gli ideali che non sono stati trucidati dalla convenienza.
Abbiamo lavorato al Banco di Napoli. Ci siamo sentiti parte di un tutto, frammenti piccoli ma sostanziali di una collettività importante. Abbiamo immaginato di assolvere a una funzione, erogando risorse che fossero un sostegno alla crescita di questa economia. Ci occupavamo di imprese, e non mancavamo di rilevare come esistessero valide realtà costruttive e redditive, che facevano anche del bene al territorio in cui operavano. Pur tra mille difficoltà amministravamo la concessione di un’economia non sottrattiva ma di sviluppo, nella consapevolezza che un’azienda che operi qui non possa avere lo stesso metodo di fredda valutazione applicato a economie profondamente diverse.
Lavoravamo da meridionali nel meridione, e quando un’impresa agonizzava combattevamo con lei per non farla morire, e come dimostra il recupero in elevatissima percentuale dei crediti, erroneamente ritenuti invece non più esigibili, lavoravamo bene.
Le vicissitudini della vita ci hanno portato fuori da quelle mura: ma oggi che quell’insegna cade, ci sentiamo come se un pezzo del nostro stesso nome sia scomparso, sacrificato sull’altare di logiche violentemente economiche che vanno, e ne siamo lietissimi, al di là della nostra comprensione.
Non capiamo, infatti, e nemmeno vogliamo capire. Siamo feriti e addolorati, invece: ma anche ben consapevoli che non sarà un cambiamento di insegna a svilire l’identità di una città. Che saprà, ne siamo certi, tenere questo ultimo sberleffo in adeguata considerazione, comportandosi di conseguenza nelle proprie scelte di supporto all’attività.