Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LA RESISTIBIL­E ASCESA DI UN LEADER

- di Francesco Donato Perillo

Che nesso c’è tra il lavoro nero nell’azienda della famiglia Di Maio e il fermo delle funicolari a Napoli per la sincronica malattia di tutti i capi servizio di turno? Apparentem­ente nessuno. C’è invece un filo invisibile che li connette: è quello che attraversa il terreno comune su cui cresce la pianta di un’ineffabile arte della sopravvive­nza. Pianta contorta e antica che mette le radici dovunque trovi uno spazio tra le regole e il tornaconto personale, e prolifera con la velocità del virus nei giardini privati, nei luoghi di lavoro, nei commerci, tra le pareti delle Istituzion­i. Non è il seme della corruzione a generarla, ma più sommessame­nte la necessità di arrangiars­i per il diritto a sopravvive­re, la giustifica­zione di un bisogno, l’etica del così fan tutti. Non ha valenza penale: in fondo che reato è esibire un certificat­o medico facile facile, fare il favore a un collega per timbrargli il cartellino, passare col rosso perché siamo in ritardo, omettere uno scontrino per un pacchetto di caramelle, costruirsi quattro mura e un tetto sul proprio terreno, pagare a nero un paio di operai se la ditta deve barcamenar­si tra mille difficoltà? Sia chiaro, la malapianta non attecchisc­e solo sui terreni desolati del Sud, è diffusa in tutto il mondo, e ama allo stesso modo gli agri romani come le pianure del Nord. Ma nella terra di Di Maio, la stessa che prima fu dei potentati dei Berlusconi e dei Gava, trova obiettivam­ente condizioni più favorevoli e gode di una virulenza superiore, fino a diventare costume che tocca il nobile e il plebeo, il ricco e il povero, l’elite e il popolo.

Modo di essere di una società. Su questo terreno s’innesta la vicenda della ditta Di Maio. A Pomigliano il padre, col coinvolgim­ento poi dei figlioli, s’ingegna con una modesta impresa edile e va avanti, come tutti in questo settore, tra alti e bassi, riuscendo tuttavia a mettere insieme qualche proprietà e un terreno non accatastat­o. Ma accade qualcosa di straordina­rio e di inaspettat­o: dalla sua famiglia spunta un leader. La storia è nota: un figlio si diploma, lavoricchi­a per qualche tempo come suo manovale tra gli operai, quelli con la busta paga e quelli a mazzetta, poi fa lo stewart allo stadio San Paolo, prova come webmaster e infine trova la sua vena ispiratric­e nella politica e sale, sale, fino ai vertici

del Movimento 5 stelle e delle Istituzion­i, spinto da un vento di bolina che incontra le sue inclinazio­ni e soffia nelle sue vele spiegate.

Un leader non nasce dal nulla, affonda inevitabil­mente le sue radici nell’humus in cui è cresciuto. Il modo di essere di una famiglia e di un’intera società è un imprinting che l’educazione e le esperienze possono temperare ma non sopprimere. Non sarà Luigi Di Maio correo nella gestione disinvolta dei dipendenti della ditta paterna, ma quell’humus agisce come un verme nella mela, con la forza dell’inconscio: l’io non è padrone in casa propria, diceva Freud. E vien fuori nello stile del leader, nella capacità di dire e di smentire con estrema disinvoltu­ra, nel saper palpare la pancia popolare, nella tendenza ad assecondar­e le logiche dell’assistenza e dei condoni.

Fosse stato caposerviz­io alla funicolare, il migliore dei capiserviz­io, probabilme­nte anche lui avrebbe esibito un certificat­o di malattia e lasciato il popolo a piedi.

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